La Conversazione Polidori/Syxty su unclosed.eu
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arte e oltre / art and beyond rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435
n°43, 20 luglio 2024
LA CONVERSAZIONE
Dialoghi sulla dimensione intermodale
Pasquale Polidori e Antonio Syxty
“Nella narrazione comune gli anni postmoderni sono quelli dell'edonismo reaganiamo, quelli del pensiero debole, dell'arte oggetto mummificato negli spazi espositivi, dell'individualismo sfrenato, della fine del criterio di ogni giudizio, dell'arte come spettacolo mondano. Verificando quella storia, con l'esperienza di chi ne ha veramente vissuto il peso, il suo carattere risulta invece molto più articolato. Gli eventi considerati estranei ad un modello sistemico e conformista, le ricerche meno conosciute, al di là della semplicistica constatazione di una loro forte identità oppositiva, hanno prodotto una continuità sperimentale che oggi reclama la sua visibilità e la sua forza per via della sua ragione d'essere. Il dialogo fra Pasquale Polidori e Antonio Syxty è un importante frammento di questa storia che pochi conoscono e che Antonio Syxty ha vissuto con passione e carattere. Ci permette di riconoscere quel tessuto sperimentale che caratterizza l'eclettismo intermodale della scena dell'avanguardia milanese dalla fine degli anni Settanta ad oggi.” Domenico Scudero
Antonio Syxty, CUT>OUTS, PIN*UP n.1, editor Pasquale Polidori, 2023
Dall’archivio di Syxty provengono dunque le ventotto fotografie che formano la prima pubblicazione del progetto PIN*UP. Il titolo specifico è CUT>OUTS, in omaggio al metodo adoperato, consistito nel re-inquadrare alcuni dettagli degli elementi archiviati, ma anche più in generale come sintesi di tutto il lavoro di Syxty, in cui è radicalmente implicata l’idea di ritaglio, di ri-montaggio, di ready made iconografico e di de-narrazione.
Una conversazione, di cui qui si presenta l’avvio — uno scambio di messaggi e allegati avvenuto via whatsapp — è seguita all’esperienza di collaborazione tra Antonio Syxty e me. Le foto che accompagnano il testo sono una selezione di immagini che documentano materiali e performance di Antonio Syxty tra il 1977 e il 1982, oltre a immagini di del progetto PIN*UP.
[PP, giugno 2024]
Antonio Syxty, foto archivio azioni e opere, courtesy Antonio Syxty
PP. (Pur essendoci molte domande precise che vorrei rivolgerti, relative alle tue opere e ai tuoi metodi, che vorrei approfondire, comincio questa conversazione senza un piano, senza una direzione, e in un modo un po’ accidentale. In un certo senso, vengo così incontro al tuo modo assai personale di fare della distrazione, e dello sviamento, una componente del lavoro artistico.)
Ho bevuto un bicchiere e sto ascoltando Je suis venu te dire que je m'en vais, perciò la prima domanda è condizionata da un clima sentimentalistico. Ecco la domanda. Quando lavori su materiali del passato, ti viene mai da commuoverti? Pensi che si possa piangere solo con le lacrime o che lavorando esista la possibilità che il pianto si effettui in modi travestiti, formali o metalinguistici?
Una galleria, un negozio, un locale, un atelier di qualche pittore o designer di moda, perché c’erano le cartoline-invito di Davide Mercatali, che si divertiva a scattare polaroid a chiunque incontrava in queste occasioni, per poi comporre un gigantesco puzzle sulla parete del suo studio (faceva l’architetto o il designer? o non faceva niente?). Una parete di polaroid, centinaia di polaroid, scattate ai vernissage di mostre e installazioni, show room, show case, e sopra quel muro di ritratti ci aveva messo un titolo: Todos a Cuba 2000. Voleva che andassimo tutti a Cuba per il capodanno del secolo! Ma eravamo ancora nei fenomenali eighties in una Milano tutta Versace, Armani, Krizia, Ferré (mentre quei due, che poi vanno molto di moda adesso, dovevano ancora diventare famosi, visto che Madonna non aveva ancora indossato la famosa T-shirt, ma io li incontravo al Teatro Smeraldo a vedere Rocky Horror Picture Show, versione originale che l’amico e “conte” Gianmario Longoni aveva portato in Italia per la prima volta). Dici bene: sentimento, nostalgia, commozione e poi forse anche lacrimeocchi-lucidi, per quelle immagini raccolte da me (ventiduenne) in modo compulsivo. Per me tutte belle quelle immagini, tutte importanti, come fossero biglietti da diecimila (lire) e archiviate in scatole e raccoglitori, che custodivo in giro tra la casa di Como e lo studio di Milano, dalle parti del Ponte della Ghisolfa (di testoriana memoria).
Che poi quelle immagini, che erano come figli raccolti in giro per una Milano male illuminata ma piena di inaugurazioni, mi sarebbero servite. Non sapevo bene a cosa, ma mi sarebbero servite! Le accumulavo senza un criterio, solo perché per me era bello farlo, averle nelle tasche dei cappotti, o nella borsa a tracolla. Me le guardavo e riguardavo, e continuavo a spostarle da una scatola a un’altra confondendone ancora di più provenienza e occasione. Le incollavo in raccoglitori di plastica, quelli per i menu delle trattorie. Erano stampate in offset, bianco e nero o colore, a seconda che fossero inviti a locali o a mostre. Erano carte porose, materiche, o lucide. Era bello toccarle, anche perché a me non piace maltrattare la carta con le mani. Mi piace “accarezzare” la carta. Un piacere fisico, che mi commuove sempre. (Credo che anche tu la pensi come me: l’ho capito dalla cura con cui hai scelto la carta di CUT>OUTS).
Erano (e sono, perché le conservo ancora gelosamente) immagini casuali, ma alcune con una grafica postmoderna, come usava nel jet set della moda o del design alternativo, quello di Alchimia/Mendini o di Memphis/Sottsass. Ricordo un’immagine che aveva realizzato il grafico Ilvio Gallo (già allievo e collaboratore di Marco Tutino) che aveva lo studio a due passi dal famoso Residence di Porta Nuova (frequentato dai fratelli Vanzina). Ilvio aveva fatto la copertina di Una giornata uggiosa di Battisti e una sera a un vernissage mi chiese di girare il videoclip, uno dei primi per quel periodo, e se lo potevano permettere solo i grandi nomi!
Cosa devo fare?
Niente, devi guidare e noi ti precediamo e ti riprendiamo con una cinepresa 16 mm, mentre guidi sotto la pioggia.
E se non piove?
La facciamo noi, la pioggia.
Dovevo solo guidare una Volkswagen (quella della copertina dell’LP) sotto la pioggia, e poi fermarmi in un motel, salire in camera, trovare una ragazza che mi aspettava e aprire una valigia con dentro indumenti intimi femminili (questo ricordo). Questo era lo script, improvvisato anche al momento (eccetto per la modella che era al trucco da ore!). Alla fotografia c’era Renato Gozzano, fotografo, filmmaker, artista, sperimentatore, grande amico di Ilvio. Saremmo diventati amici anche noi. Io facevo il modello per l’agenzia Miranda&Nicole (e poi anche per Donatella Mauro, in Piazzale Baracca), ma amavo la poesia visiva, e lui collezionava Schifano, beveva whisky e fumava (Gauloises gialle), fumava, quanto fumava! e parlava con la sua voce roca mentre mi faceva vedere un carousel pieno di diapositive appena scattate in Irlanda.
Una volta mi disse: sai qual’è la più bella fotografia che ho fatto?
No, dimmi.
E lui: in realtà non è una fotografia, è lo spazio bianco che si crea sul muro quando cambio la diapositiva, con quel clac! meccanico che faceva il proiettore dia mentre cambiava.
Renato era visionario e sperimentava sempre, anche quando gli commissionarono lo spot di Grand Marnier, che realizzò con la tecnica di ripresa a passo uno (non credo che il cliente fosse soddisfatto). Come vedi la nostalgia e gli occhi-lucidi continuano quando le prendo in mano quelle immagini, perché mi tornano in mente tanti fatti, che forse non c’entrano niente. Mi viene in mente Walking on the Moon cantata da un giovane Sting dei Police. I Police erano amati da tutti noi, in quelle serate alcoliche e fumose a casa di Renato o di Cinzia Ruggeri, (la stilista della Milano trendy e alternativa). Come dici tu, quelle immagini sono inafferrabili e possono raccontare qualsiasi cosa, qualsiasi storia. Anche una lunga storia. Una storia vera, ma anche un po’ finta, devo confessartelo (anche se non ti dirò mai quale parte è vera e quale è falsa). E questo a noi piace, vero?
Mi sarebbero servite eccome quelle immagini, per fotocopiarle e fare a mia volta i miei inviti da distribuire come Tutti Frutti di Syxty al Plastic, la sera, dove incontravo Graziano Origa e i suoi boys a torso nudo, mentre distribuivano a loro volta la rivista Artist di Graziano & Joe, che erano da poco sbarcati a Milano dopo un lungo soggiorno a Miami. Graziano vestito in smoking e occhialoni alla Warhol e Joe, biondo tinto, capelli corti, Rayban, torso nudo con papillon e pantaloni in pelle attillati. Il tutto molto Village People! Graziano non era Andy e Joe non era proprio quel Joe Dallesandro, modello e pornoattore della Factory newyorkese, ma a noi andava bene lo stesso per immaginare e realizzare performance che avrebbero avuto la musica dei Police, Walking on the moon …
PP. Raccogliere immagini che poi sarebbero servite, tu dici. L'utilità di un'immagine è un concetto molto ambiguo. Può essere utile un'immagine che crea un'altra immagine, come accade quando le immagini sono tradotte da un mezzo all'altro e rifatte o montate. Ma ci sono immagini la cui utilità è nel blocco, nel fatto che non escono da sé stesse o che sono totalmente inapplicabili. Ed è vero che le immagini, una volta raccolte, sono come un debito: gli devi qualcosa, o qualcosa devi farci, e se pure non ci fai niente, te le porti dietro e gli cambi di posto, nei traslochi e nelle pulizie. C'è un pacco di cartoline che provengono da alcuni viaggi. Al momento di prenderle ne ero così attratto che avrei voluto che quella attrazione svelasse dei motivi legati al mio lavoro artistico, che poi sarebbe stato un modo di chiarire il mio legame con quelle immagini attraenti. Come se l'attrazione non fosse già una finalità sufficiente per quelle immagini. Ma invece non le ho mai usate. Ogni tanto le guardo e poi le rimetto a posto. Sento pure un po' di frustrazione per non essere riuscito a farci nulla. Non riuscirei a buttarle e però credo che non fanno per me, non dal punto di vista del mio lavoro. Le devo tenere per non venir meno a un sospetto o a un desiderio, e c'è la possibilità che questa fedeltà sia un peso. Potrebbe essere che la performance sia la liquidazione dell'immagine raccolta, o che la forza dell'azione sia nella rimozione di ogni immagine possibile? Posso provare a dirlo in un altro modo: è possibile che la riuscita di un atto teatrale coincida con il fallimento delle foto di scena? O forse sto immaginando una contraddizione tra performance e pittura, sbagliandomi?
Antonio Syxty, foto archivio azioni e opere, courtesy Antonio Syxty
AS. In quegli anni — sto ancora parlando degli anni ’80 — mi sembrava che le immagini avessero un destino che poteva essere anche il mio. Raccoglierle, a caso, nei posti più impensati, (dai saloni di bellezza, ai vernissage, in una agenzia di viaggi o alla reception di un motel AGIP) dovessero tracciare un disegno, che poi era probabilmente costituito solo di una compulsione a “raccogliere per disperdere” ancora una volta; un senso narrativo, performativo, in grado di poter falsificare luoghi, geografie, azioni, incontri. Una volta mi ero fatto dare alcuni filmati in 16 mm da un tour operator di Milano sulle Contadora Islands, filmati destinati ai turisti, per farci una performance che si chiamava Nuova Zelanda, che poi ho fatto in una discoteca che si chiamava Odissea 2001, pensando a Kubrick! Quando ne parlavo con Renato Gozzano — che era fondamentalmente uno sperimentatore del linguaggio filmico e si rifaceva probabilmente ai grandi esempi americani di Jonas Mekas e altri — avevo la sensazione di “fare qualcosa” anch’io, di rendermi utile per continuare a depistare l’idea stessa dell’immagine, raccolta in relazione a qualcosa che andavo sperimentando quando usavo quelle immagini per una performance, trasformandole in diapositive o fotografie, intervenendo poi sulla celluloide o sulla stampa in bianco e nero, falsificandole a mia volta. In realtà l’utilità si confondeva con l’utilizzo e con il divertimento (in forma di euforia duchampiana) a traslare concettualmente ogni senso, per ogni frammento visivo, che all’inizio era solo cartaceo (ready made).
È vero, lavoravo per la moda, diventavo io stesso immagine di me stesso nel posare come modello davanti a un obiettivo fotografico, e questo mi rendeva ancora più addicted a ogni frammento di immagine — soprattutto quel tipo di immagine lowbrow, che poteva derivare dal fumetto underground, dal punk, dalle pubblicazioni di moda o di gossip scandalistici. Non ho mai smesso di essere così compulsivo nel raccogliere, nel riutilizzare immagini e frammenti di immagini, con l’intenzione di rammendare storie e avvenimenti mai vissuti, solo ipotizzati, spacciati per veri. Per questo motivo mi è sembrato fantastico che tu mi proponessi di creare altri frammenti con CUT>OUTS! E quando hai dato alla serie il titolo di PIN*UP ho avuto la netta sensazione che — nel mio caso e a distanza di 40 anni — il gioco potesse continuare! A questo mio gioco, in quegli anni, si divertivano un po’ tutti quelli che venivano a vedere le mie performance, quando ricostruivo un set fotografico, o quando simulavo un casting per future starlet della tv. Questo non succedeva ai critici, che in realtà non ne capivano il senso, ma agli artisti, ai designer, ai fotografi, ai copy, agli architetti, ad altri performer. E quando l’immagine è diventata digitale, e quindi in grado di essere “raccolta” e riutilizzata in altro modo, non mi sono fermato, anche se è venuto meno il piacere fisico di strappare l’immagine di carta e accostarla a un altro frammento per creare una seconda, terza, millesima ipotesi utopica di senso.
Quando abbiamo progettato CUT>OUTS tu hai proposto di ri-fotografare con uno smartphone le immagini, in un continuo re-framing, espandendo digitalmente il frammento, così come facevo io con la fotocopiatrice in quegli anni ancora analogici.
Credo che tutto sia legato a una forma di situazionismo comportamentale, da cui immagino di essere affetto. Quando tu parli di rapporto emotivo con l’immagine — come mi hai scritto nella prima domanda — per me questo canale emotivo non si è mai aperto veramente perché non è l’immagine in sé che mi appartiene (o alla quale io appartengo) ma solo un frammento di un falso-me che afferma di essere un vero-me.
Se poi scrivi che “…è possibile che la riuscita di un atto teatrale coincida con il fallimento delle foto di scena?” in realtà crei un’ipotesi molto interessante e assolutamente pertinente a quello che è il mio rapporto con l’immagine: un atto impossibile, destinato a una forma di dissoluzione (o a una soluzione come un solvente per il pigmento del colore) in grado di diluire la realtà dell’atto artistico, qualunque esso sia e a maggior ragione quello teatrale, che si propone a sua volta come artificio, invenzione specchiante, inganno di senso e comportamento, in definitiva una forma di fallimento.
Antonio Syxty, foto archivio azioni e opere, courtesy Antonio Syxty
PP. Un’espressione molto pertinente a ciò che affermi è il modo di dire “fare carte false”. Significa essere disposti a falsificare la realtà pur di giungere a un obiettivo, assumendosi il rischio dell’assurdo, della menzogna e dell’artificio.
Il lavoro artistico, essendo un fatto di linguaggio, è naturalmente un’opera di falsificazione, quel tipo di falsificazione che incomincia già dal primissimo atto del non fare nulla di utilitaristico, ma solo spostare le cose, cambiandogli nome, traslando le figure. Poi, quello che è maggiormente importante in questo processo di falsificazione, è che proprio l’obiettivo che dovrebbe giustificare il fatto di fare carte false, nel caso dell’arte viene a mancare. O forse è più preciso dire che questo obiettivo — che normalmente si identifica con la realizzazione dell’opera e la sua accettazione — non coincide che in minima parte con la verità dell’opera, ammesso che una verità ci sia. Noi accettiamo un’opera d’arte perché essa ci dice qualcosa o ci insegna qualcosa. Non sono sicuro che questo criterio di accettazione (o di promozione) dell’opera sia il fondamento autentico di quel processo di falsificazione in cui l’opera consiste.
Vorrei richiamare, a questo proposito, il tuo lavoro sulle predizioni, quella lettura delle carte da te disegnate che – mi pare – non mira ad altro che alla costruzione possibile di un dialogo, tra te e l’interlocutore di turno, la cui efficacia predittiva coincide con il solo fatto che si realizzi la performance, ossia il dialogo. Queste carte si basano sulla teoria della lettura dei tarocchi, ma le tue carte sono truccate: non predicono un futuro, bensì creano un presente di chiacchiera, un presente che, dal punto di vista della finalità, è vuoto. Io credo che questa cartomanzia sia una parabola estrema del fatto artistico.
E aggiungo che questa parabola è la sporgenza del teatro nell’arte visiva. Del teatro ridotto all’osso.
Antonio Syxty, foto archivio azioni e opere, courtesy Antonio Syxty
AS. “Fare carte false” è un’espressione davvero indovinata nel mio caso. Hai proprio centrato il mio comportamento nei confronti del linguaggio artistico. L’idea di falsificare è per me una pratica fondamentale per mettere fuori asse lo sguardo e il pensiero.
Credo che questo c’entri molto anche con il fatto che poi dalla performance io sia passato al teatro, praticando per molti anni — in una veste ufficiale e professionale di “regista teatrale” — una forma di falsificazione che aveva a che fare con lo spostare cose, immagini e parole in una pratica comportamentale che vede contrapposte verità della vita e finzione della scena, in quanto artificio. Il tutto è iniziato comunque prima della pratica della performance — attraverso la scrittura non lineare, che già era una scrittura obliqua di senso.
Ipotizzavo di salare il sale e di tirare un muro con delle corde legate al mio corpo, oppure affermavo di volerlo attraversare fisicamente: il mio corpo fisico diventava una macchina celibe per attraversare altri corpi fisici. All’epoca avevo 20 anni ed ero innamorato di Vito Acconci che utilizzava il corpo come estensione del linguaggio artistico nello spazio privato/pubblico. E Vito Acconci aveva iniziato come poeta. Un po’ mi identificavo in lui ed ero letteralmente affascinato dalle sue performance.
Di fatto posso ammettere e confessare a distanza di anni che in quel periodo, che poi erano gli anni ’80, avevo la compulsione — e anche una certa “euforia” — a fare carte false con lo scopo non dichiarato di far sparire la realtà.
De Dominicis (un’altra figura mitica per me) nel 1966 nel Testo sulla Immortalità in una lettera rivolta a una misteriosa donna scriveva: “Cara… io penso che le cose non esistono…” e io andavo matto per quella frase, che trafugavo per i miei scopi, che si risolvevano in continui depistaggi — nel mio caso — focalizzati sull’identità. Volevo sparire come identità reale e continuavo a cambiare pseudonimi, fino a fermarmi su “Syxty”.
Se non ricordo male, in uno dei miei scritti giovanili, affermavo che se non avessi praticato il linguaggio artistico avrei fatto volentieri il ladro. Un ladro gentiluomo, ovviamente. Pensavo decisamente a Arsenio Lupin! L’idea di trafugare e sostituire mi ha sempre spinto a “cambiare le carte in tavola”, con lo scopo di fuorviare il discorso, deragliando e deviando, utilizzando derive e assemblaggi che avrebbero acquistato un senso altro da quello convenuto e certo.
Ero così affascinato dall’Elévage de Poussière (Allevamento di polvere) di Man Ray/Duchamp e dai Tre Rammendi Tipo che mi sentivo davvero eccitato all’idea di praticare una nuova “mia progettazione” della realtà, che però non avesse nulla a che fare con la realtà, e forse anche con una progettazione. Il progetto, in genere, era — e nel mio caso, ancora una volta — un finto progetto. Lo facevo con immagini e scritti, disegni e piantine/mappe/cartografie puntigliose e molto accurate che si occupavano di trasfusioni di sale salato che venivano messe in atto — nella performance — da lunghe fettucce di stoffa bianche, (erano i miei “rammendi tipo”!). Era per me una cosa davvero divertente — nel senso di distrarre, divergere.
In fondo il teatro — a distanza di anni — ha rappresentato per me la possibilità di non fare quello che avrei dovuto fare: adoperarmi per rappresentare. Qualcuno, più attento al mio lavoro di regista teatrale, mi aveva fatto notare che quello che progettavo per la scena e la rappresentazione stessa del manufatto teatrale sembrava voler sfuggire all’idea di partenza del teatro. Spesso infatti in ambito teatrale parlo di “prestigio”, nel senso etimologico del termine. In pratica, attraverso il teatro, mi comportavo come “se volessi starne fuori”, facendo carte false per convincermi e convincere gli altri che “stavo dentro”.
Hai perfettamente ragione quando dici che “… la realizzazione dell’opera e la sua accettazione non coincide che in minima parte con la verità dell’opera, ammesso che una verità ci sia”. Ecco il punto: ammesso che una verità ci sia. Proprio così. Ancora dubito che una verità ci sia nell’opera, mentre credo fortemente che ci sia una verità nel percorso del linguaggio e del progetto verso una non verità, verso l’opera.
Quando ti riferisci a un mio recente lavoro di performance basato sulle predizioni attraverso false carte di tarocchi da me disegnate hai certamente sintetizzato tutto il percorso. In quella mostra alla Galleria Artra di Milano nel 2022 facevo i tarocchi ai visitatori. Mi ero messo una parrucca di capelli bianchi e una barba bianca molto folta e lunga “interpretando” una figura/simulacro inventata che ho chiamato The Silly Sage (il Saggio Sciocco). Saggezza o sciocchezza? Sciocchezza della saggezza o saggezza della sciocchezza? E oltre a questo gioco/scambio di parole c’erano poi le parole che dicevo alle persone che durante la visita alla mostra si facevano leggere le carte dei tarocchi (false e truccate). In pratica sono arrivato a fare il cartomante (e ci saranno sicuramente altre occasioni per farlo, perché adorerei poter sviluppare questa mia dote divinatoria!) con lo scopo di truffare con euforia e a cuore aperto il mio stesso “fare artistico”. E a questo aspetto si unisce la gioia sincera di poter avere dei complici in questa truffa: gli stessi visitatori occasionali e interessati alla mia cartomanzia.
Tu hai scritto un pezzo molto bello sui miei tarocchi e sul mio “taroccare la realtà” che mi piace riportare qui in parte:
«…La destinazione come arte è esattamente quel che accade quando le carte divinatorie di Syxty sono all’opera. Separati da un tavolino, siedono l’artista e il destinatario della sua arte. L’artista mescola le carte, ovvero le cose, ovvero il mistero delle cose ambigue, che ora sono simboli e linguaggio, e ora relitti svuotati di valore, soltanto adatti a strutturare un’esistenza alla quale è promessa la trasfigurazione del senso, a condizione però che essa si affidi alla sciocchezza — il dispendio del sale duchampiano. E leggendo le carte l’artista azzarda una trama di parole dirette al destinatario — un dialogo a tentoni, una storia molto astratta, l’eventualità di un significato chissà dove — oltre che stabilire una comunione di soggetti impegnati all’interpretazione e a fare il linguaggio. L’opera non è altro che questo dialogo che porta a coincidenza il fare e il leggere. L’arte di Antonio Syxty, che è teatro nell’arte visiva e arte visiva nel teatro, consiste così nel creare una scena in cui possa accadere una tale coincidenza.»
Devo ammettere (e in questa sede possiamo dircele le cose) che mi piacerebbe poter costruire con te come artista una situazione “in forma di performance” o di happening concettuale intorno al proposito di continuare una divinazione allo scopo di continuare a fare False Profezie. E con questo proposito istintivamente mi è venuto anche un titolo che ti propongo: Paso Doble, (una traslazione fra arte e ritualità della danza, chissà?). Potrebbe essere un modo per continuare a cambiare ancora una volta le carte in tavola.
Antonio Syxty, foto archivio azioni e opere, courtesy Antonio Syxty
PP. Il libro che Luciano Inga-Pin ha dedicato alla così detta body-art si intitola Performances, e riunisce sotto questa etichetta una serie di modalità operative elencate nel sottotitolo, in inglese: happenings, actions, events, activities, installations….. In copertina, l’elenco è lasciato aperto in virtù di cinque puntini di sospensione, lasciando così immaginare la possibilità di ampliare questa gamma di operazioni, e anche proiettando la stessa parola ‘performance’ in un campo linguistico di non sufficiente definizione, dove però non è questione di incertezza quanto piuttosto della impossibilità che una teoria renda conto della pluralità e mutevolezza dei fenomeni artistici nel corso del tempo, o nel fare del presente. Il libro uscì nel 1978, e per molti versi potrebbe essere considerato un bilancio consuntivo ultimativo, se non addirittura un sipario calato su dieci anni di pratiche concettuali a vasto raggio di materie e linguaggi. Ma non è così. Questa prospettiva ansiosa di (continuare ad) affermare una traiettoria storica lineare delle arti, in cui a un certo punto ci sono delle aperture e eversioni dalle tecniche (e si chiamano ‘avanguardie’) a cui segue un ritorno alle tecniche (che si chiama ‘ritorno della pittura’), è una prospettiva secondo me incapace di spiegare lo stato delle cose. Sicuramente incapace di spiegare le nostre vite e il modo come una pratica artistica si forma e si sviluppa nell’esperienza e nell’arco di una esistenza. Sto cercando di dire che dal lato del lavoro, cioè dell’energia operativa che ciascun artista impiega nella formazione di un proprio percorso, le cose non sono così semplici come calare e alzare i sipari della storia dell’arte, o di una storia dell’arte che per pigrizia rinunci a ricercare il senso dei fenomeni al di là del sistema commerciale immediatamente disponibile.
Proprio il libro di Inga-Pin si apre con la celebre frase di Adorno da Filosofia della musica moderna che afferma: «Le sole opere che oggi contano sono quelle che non sono più opere». In questa frase le opere contengono la propria negazione: ci sono opere che non sono opere. Ora, se da un lato crediamo di essere sicuri sulla individuazione delle opere, non fosse altro che per via di una serie di convenzioni, dall’altro lato non siamo altrettanto sicuri nella indicazione delle opere che non sono più opere, anzi, non ne sappiamo quasi niente. Ma questo evidentemente non equivale a negarne l’efficacia, cioè l’effettiva produttività all’interno del linguaggio.
Ho introdotto il libro di Inga-Pin nella nostra conversazione non solo perché hai parlato di Vito Acconci e dell’influenza che ha avuto sul tuo metodo, ma anche perché mi interessa sapere qualcosa sulle opere-non-più-opere a Milano per te dopo gli anni Settanta. Mi riferisco in particolare al tuo rapporto con gli scrittori, che non è affatto inscrivibile in una tradizione di scambi tra letterati e artisti visivi: c’è qualcosa di diverso. Tu non consegni un’opera d’arte che sia descritta o interpretata o commentata in un versante letterario; né ti limiti a trarre dalla letteratura una occasione di generazione dell’immagine. Mi sembra che questi due sensi di un’unica strada siano inadatti a rendere l’idea del tuo rapporto con la scrittura e con la scrittura degli altri, o i libri di chi fa letteratura. E posso dire che anche nel mio caso è così. C’è una interazione che avviene sugli strumenti o sulle strutture – chiamiamole così – e non solo sui prodotti. E c’è anche l’umiltà di prestare la propria presenza – una presenza che implica coesistenza di esperienza e strumenti – al discorso degli altri, ricavandone ..… E qui metto i cinque puntini di sospensione, come Inga-Pin. E sono esplicito nel chiederti: La Finestra di Antonio Syxty è una delle opere-non-più-opere a cui Adorno attribuisce importanza?
Antonio Syxty, foto archivio azioni e opere, courtesy Antonio Syxty
(Ecco che torno a pensare di me come di un artista poco “riflessivo” e forse più “riflettente”!)
Con Vito Acconci ti è venuto in mente Inga-Pin, che io ho avuto la fortuna di conoscere nella sua galleria di via Pontaccio a Milano. Era il 1983 e lui presentava questo gruppo di artisti che credo si chiamassero The Plumcake(s). Io sapevo che lui era un talent-scout e che aveva operato/promosso/portato in Italia i maggiori artisti internazionali che operavano nell’ambito della performance e così andai a vedere quella mostra, che non c’entrava molto con l’ambito della body art e della performance. (Del resto lui era considerato un talent-scout).
Ma quel libro di Luciano Inga-Pin, dedicato a quella zona operativa che comprendeva i linguaggi dell’arte, e che andavano sotto la definizione di performance, happening e via di seguito lo scoprii anni dopo (anche qui per caso) e poi, sempre a distanza di anni, me lo hai messo in mano tu, una volta che parlavamo del tuo lavoro in Accademia a Brera. Sfogliando quel libro riconosco i motivi e i “movimenti in avanti” di altri grandi artisti, che hanno sfidato il concetto di opera, negandolo fino al punto da dissolvere l’oggetto-opera, o di ipotizzare un’opera-non-più-opera.
Gli anni che sono seguiti a quelle fantastiche visioni del possibile in arte (e che passavano attraverso il corpo, l’azione, l’installazione e così via) sarebbero stati invasi da un ritorno alla pittura come “opera”, a vantaggio di galleristi e mercanti in grado di commerciare e scambiare qualcosa di certificato come “opera”. Una grande strategia inventata probabilmente a tavolino da un importante critico/guru/artista come Achille Bonito Oliva (ma quella è un’altra storia ancora).
E a questo punto, se devo provare a esprimermi su quello che tu definisci le opere-non-più-opere e il mio rapporto con gli scrittori, vado un po’ “alla cieca”. Ma prima degli scrittori devo necessariamente ricordarmi che prima di loro — per me, a Milano, nella Milano di quegli anni ’80 — c’erano i designers, gli architetti, i fotografi, gli stilisti, i visagisti, gli art director, i copywriter. Loro erano per me “gli scrittori”. E il mio rapporto con la letteratura (con chi scriveva per lo più poesie) era in un certo senso utile per me facilitandomi un comportamento che, solo a distanza di anni, capisco essere stato compulsivo. Quello che mi serviva prendevo, andando cercando con il mio rametto di legno biforcuto (a forma di “Y”…Syxty) come un rabdomante in cerca di acqua o metalli preziosi nel sottosuolo. E quindi “gli scrittori” (che erano per lo più “i poeti”), erano per me altri cercatori di metalli preziosi, nascosti nel sottosuolo dell’anima e del pensiero. (Ma la scrittura che ho praticato io e che tuttora pratico, e tu lo sai, è solo progettuale e processuale).
Nel “ritorno a casa” — dopo queste ricerche assolutamente governate dal caso e dagli incontri, come è stato in questi due ultimi anni l’incontro con te che metti in atto anche la scrittura come progetto — mi trasformavo nella figura dell’alchimista, nel cercare di combinare elementi che potessero far pensare al fatto di operare-nel campo-artistico. E qui abbiamo tre parole: operare (opera), campo (terra, terreno), artistico (arte come seme, per una semina senza intenzione di coltura).
Quindi, come giustamente tu osservi, il mio è un prestarmi all’opera e agli operatori di linguaggi, credendo in questo di muovermi in avanti in un mio percorso. Ma la domanda è: chi si sta muovendo? Io o loro? E loro possono essere senza dubbio gli scrittori, i poeti, gli artefici che usano il linguaggio della parola scritta, gli operai dello scrivere. (Per me la scrittura è comunque affascinante, ma non determinante).
E vengo alla tua domanda finale: che cosa è allora La Finestra di Antonio Syxty? Un opera-non-piùopera come tu ipotizzi? Forse sì (e se vogliamo accordarci nel provare a definirla nel suo “muoversi in avanti”, senza altro progetto che la ripetizione). È sicuramente un’opera digitale, cioè realizzata dai mezzi digitali, che viene certificata nella sua apparizione come fantasma digitale (apparizione), registrata/o e archiviata/o, catalogata/elencata su un server (di cui non conosco la posizione geografica) e forse anche — qualora se ne presentasse l’occasione — anche cancellata/persa/dimenticata.
Questa registrazione digitale fa parte di un catalogo (il mio catalogo di opere-non-più-opere se vogliamo) nato in un momento in cui guardavamo il mondo reale da una finestra (il momento storico della Grande Pandemia Covid 19). La Finestra era il frame (quadro/superficie/specchio/foro) attraverso il quale “guardare” il mondo in modo del tutto sterile (senza la possibilità di fecondarlo), e così ho pensato di creare una Finestra di Antonio Syxty, che nel corso degli anni ha generato centinaia di apparizioni (e continua a farlo). E chi appariva (e appare ancora) alla Finestra di Antonio Syxty? Persone. Opere-Persone in forma di ritratto-linguaggio-comportamento? Non saprei dirlo. Direi che per me è importante ripeterla, come faceva Vito Acconci quando saliva sullo sgabello.
Secondo te l’opera-non-più-opera può essere considerata all’interno del situazionismo in arte? Io mi “sento” e definisco un “situazionista” anche molto vicino e legato all’arte comportamentale.
Antonio Syxty, foto archivio azioni e opere, courtesy Antonio Syxty
10 marzo 2024 alle ore 08.07
Non che tu non abbia lavorato con l’immagine, o che non lo faccia tuttora. Sei un pittore, e inoltre CUTOUTS non è che un segmento di una densa risorsa di immagini (pausa) ma, appunto, di immagini possibili, o in altri termini, di immagini (pausa di chi si sta per buttare in un precipizio dal quale spera comunque di salvarsi) che sono conseguenza di una attività non diretta principalmente all’immagine. Per me la pittura (oggi) si trova in una situazione simile a quella della scultura: cerca il suo modo di indurre l’immagine, non sempre di produrla.
Poi, fra le altre cose, tu hai fatto anche il foto-modello, e questo aspetto lo trovo davvero fondamentale, tanto che non so se la parola foto-modello debba andare tra virgolette o senza virgolette (pausa comprensibile) forse meriterebbe solo una sottolineatura che sta a dire: io sono stato una immagine per lavoro, io sono stato una immagine al lavoro, e quindi (pausa di sospensione appesa al magnetismo totalizzante delle preposizioni) …
Non viviamo, secondo me, tempi di definizioni, e certamente non di auto-definizioni. Siamo abbastanza cresciuti per capire che le definizioni le fanno gli altri. [E non c’entra l’aver studiato; tu pensi che io abbia studiato; io penso che ho fatto solo esperienza del mio amore degli artisti, o della mia mancanza degli artisti; e mi riconosco nel tuo desiderio di Vito Acconci.] Però penso che oggi una natura (se così posso dire) dell’arte visiva, e degli artisti che lavorano al visivo, sia proprio nell’assicurare all’immagine un regime di condizionalità, e non di immediata consistenza. Addirittura un regime di distrazione.
Credo che questa natura specifica del lavoro artistico odierno, sia quella che implica l’attività costruttiva che tu chiami “situazionismo”. Un’attività tenace e costante, che oltretutto esprime una grande capacità di mediazione (pausa easy) nel senso proprio di diventare un medium; ecco la y del tuo nome: una lettera che raffigura la divaricazione e la confluenza.
Allora la domanda è questa: perché come materiale della tua (situ)azione costruttiva, tu scegli proprio i poeti, o quelli che si dibattono nella crisi della definizione di poesia, tanto per capirci (e per non fare torto)?
Antonio Syxty, foto archivio azioni e opere, courtesy Antonio Syxty
AS. Inizio con le tue parole (le prendo a prestito) per introdurre una riflessione sul tempo e sull’immagine, come tu (proponendo) scrivi rispetto alla scultura e all’immagine. Eccole:
(pausa)
(pausa breve)
(pausa logica)
(pausa molto molto lunga)
Con l’ipotesi nata di scambiarci domande e risposte in merito a CUTOUTS (che poi si confondono e si rimandano fra domanda e risposta, rispondendosi da sole nella domanda e domandandosi da sole nella risposta) volevo spostarmi nella zona/concetto di tempo che, nel mio caso, sembra determinare l’idea di spostamento/percorso che cerco di mettere in atto nel comportamento del reale in funzione del “fare/agire arte” (tornano le virgolette!).
C’è un artista che ho scoperto intorno al cambio di millennio che si chiama Tehching Hsieh. È nato a Taiwan e poi è emigrato illegalmente negli Stati Uniti e ha realizzato performance molto estreme determinate dal tempo, realizzando quelle che lui ha definito le One Year Performance e che consistevano in una gabbia di legno (tre metri per tre, per due metri e mezzo d’altezza) installata in un angolo del suo piccolo appartamento a New York. Dentro la gabbia c'era soltanto una brandina, un lavandino e un secchio. Nessuna possibilità di leggere libri, riviste, giornali. Solo un amico che ogni giorno gli scattava una fotografia e gli portava cibo e indumenti puliti e portava via i rifiuti. Un avvocato aveva sigillato la gabbia e certificato il rispetto dell’impegno preso che era di trascorrere il tempo, perché — come aveva dichiarato lo stesso Hsieh all’inizio della sua opera nel 1978 — “sono già nella mia opera”: cioè trascorrere 365 giorni a pensare (a parte le funzioni fisiologiche). Pensare e vivere il nudo passare del tempo. Tutto qua.
Antonio Syxty, foto archivio azioni e opere, courtesy Antonio Syxty
Quell’attività di foto-modello — iniziata per caso su invito di un imprenditore della moda, e che in realtà mi serviva per sbarcare il lunario a Milano e che mi evitava di fare il garzone in un bar o in un ristorante — era diventata “la mia vita artistica” (Life Sentence), promossa da una delle agenzie per foto-modelli di Milano di quegli anni. Avevo abbandonato per un certo tempo le performance da artista/alchimista (di ispirazione duchampiana, come quella di salare il sale e di tirare un muro con i capelli degli anni precedenti, 1976-1979) per raggiungere “una superficie”, (una superficie per fare surf o per galleggiare — in quegli anni leggevo The Floating Opera — romanzo postmoderno di John Barth. Ma prima di concludere e rispondere (o non rispondere) alla tua domanda 5 voglio raccontarti un fatto che mi è capitato quando avevo 16 anni e che ha determinato in me una riflessione/intuizione sulla mia identità/immagine. Un pittore di origini calabresi, di nome Tullio Alemanni, che si era stabilito nella regione del Canavese, in Piemonte, e che aveva affrescato le maggiori chiese della città di Ivrea, venne a vedere una mia performance dal titolo Opera Aperta, che avevo realizzato nel cinema dell’oratorio del paese di Azeglio coinvolgendo i miei coetanei amici e parenti e che aveva come tema la figura iconica di Gesù (credo volessi già confrontarmi con figure iconiche). L’artista volle conoscermi e mi chiese espressamente di posare con le mani per lui. Non avevo nessuna idea che si potesse posare con le mani (in fotografia, anni dopo avrei fatto anche il “manista”) e passavo ore intere a posare con le mani per i quadri del pittore, mentre lui mi parlava del concetto di arte e sofferenza (e ancora oggi non so perché lo facesse: forse perché dovevo stare fermo per ore?).
Antonio Syxty, foto archivio azioni e opere, courtesy Antonio Syxty
Ecco che arrivo ai poeti e alla tua domanda. Per me i poeti sono una parte per qualcosa che non si vede, e sono un tempo che non trascorre. Si conosce il loro aspetto, si possono avere notizie e avvenimenti della loro vita. Si possono venire a sapere le cronache delle loro relazioni, ma c’è una parte che non si può vedere e che non è la loro scrittura poetica. Probabilmente il poeta tenta disperatamente di indurre l’immagine come scrivi tu dello scultore, ma non è tanto su ciò che fa il poeta, ma su ciò che tenta di fare, che è come afferrare l’aria, il respiro, ingabbiare il silenzio. E questo lo affermo aldilà dello stile di scrittura, delle scuole, dei movimenti, dei periodi storici e letterari. Ovviamente, per formazione e gusto, mi relaziono con maggiore affezione con i poeti che agiscono sul linguaggio, lo de-strutturano, lo spostano, lo riconvertono, lo fanno sparire.
La mia azione costruttiva, (come la definisci tu, al posto della “situazione”) vorrebbe in qualche modo simulare un “segnale radio” di cui non si conoscerà mai la fonte e il trasmettitore. (Mi viene in mente la Torre Radio di Lost, che viene custodita dal personaggio di Danielle Rousseau, e che trasmette "i fattori chiave dell’Equazione Valenzetti, cercando di avvertire il mondo che "l'unico vero modo" è stato trovato, e l'apocalisse predetta dall'Equazione è stata spostata).
E se penso a Lost trovo che la metafora (per il mio rapporto con i poeti) sia perfetta: cercare di spostare l’isola dove è avvenuto il naufragio.
AS. Volevo provare a invertire la direzione, facendo io una domanda a te per continuare il nostro dialogo/confronto causato da CUT>OUTS.
Nel 1979 ho iniziato un progetto di performance che per comodità ora definisco The Kennedy Project (e del quale sto rielaborando i materiali di archivio in una edizione che trasporta la scrittura e il progetto in forma digitale). Il progetto era articolato in 3 momenti che vanno dal 1979 al 1981. Il primo era I Want To Fly Like Superman, il secondo Kennedy The Assassination e il terzo aveva il titolo Kennedyne. In Kennedyne c’era un punto della performance nel quale cantavo in playback la canzone di Fred Bongusto La mia estate con te del 1976. In quegli anni io elaboravo e usavo materiali spuri (preferisco definirli così) che venivano da una cultura pop, come il fumetto, la musica leggera, la pubblicità, la moda prêt-à-porter, la cronaca, i film western e quelli hard boiled, la narrativa rosa, i fotoromanzi, il culturismo e via di seguito. In particolare quando mi riferisco a film e musica intendo specificare che si trattava della parte sonora, quindi spezzoni di dialoghi e canzoni. I frammenti venivano combinati creando una nuova narrazione o una de-narrazione. Si alternavano e venivano manipolati in forma di happening gestuali e comportamentali con l’intenzione di azzerare una forma di linguaggio pop per ridefinire una zona concettuale di falsificazione continua dei generi e delle forme (non sono mai stato molto bravo a parlare teoricamente del mio lavoro).
Tornando a Fred Bongusto avevo scelto di interpretare quella canzone usando la tecnica del playback, esasperando in modo quasi grottesco la parte melodrammatica, facendola diventare un frammento inconcludente all’interno di una seduta fotografica per pubblicizzare linee di abbigliamento casual di quegli anni (che mi facevo dare dalle varie case produttrici). Il tutto si presentava come un impasto non-sense performativo. Lo stesso succedeva quando il nastro registrato trasmetteva spezzoni di film durante i quali io, senza emettere suono, simulavo il labiale del doppiatore di uno degli attori, come accadeva con la tecnica del playback. Il tutto veniva anche definito da un set cinematografico che costruivo grazie alla presenza di fotomodelle, ballerini di tango, culturisti — come fu per la Galleria Bianda di Locarno dove avvenne un’edizione di Kennedy The Assassination.
Il mio esercizio/comportamento performativo in quel frangente non aveva altro scopo se non quello di scardinare la “verità mediata” di quel momento narrativo per falsificarla ulteriormente, senza alcun intento interpretativo. Ero affascinato dal lavoro di Gilbert & George, che non c’entrava forse nulla con quello che facevo io, ma che con la loro trasformazione in sculture viventi, inscenavano un rapporto tra l'arte e la vita come asse portante della loro poetica, e questo in qualche modo risuonava in quello che cercavo di fare io con altri comportamenti e in altri contesti.
A questo punto vengo al tuo lavoro, che ho imparato a conoscere nei nostri scambi di opinioni sul fare arte e sulla performance degli anni ’70. Tu lavori molto con la voce, la tua e quella di altri (come quando mi hai fatto sentire letture di voci maschili e femminili nel tuo lavoro a Brera). Ma fermandomi alla tua voce e ai tuoi file audio (quelli che mi hai fatto ascoltare) sono rimasto affascinato da un uso melodrammatico (passami il termine) della forma e del contenuto. Una sorta di teatro interiore, concettuale e spirituale insieme, che trova nell’organo della voce una scrittura misteriosa e euforica, che diventa quasi “scultura vocale”.
Ascoltando alcune tue performance vocali e i tuoi file audio, per quel poco che ho conosciuto, ho avuto una sensazione che quella che io definisco scultura vocale sia una sotto-traccia di un mondo sonoro (tempo sonoro, galassia sonora) misterioso, nascosto, in grado di generare un comportamento artistico quasi “sciamanico”.
Ecco la domanda: me ne parli in modo più esteso? Quando nasce, come nasce, e come si è sviluppato in molti dei tuoi interventi artistici come mostre, installazioni e performance?
Antonio Syxty, foto archivio azioni e opere, courtesy Antonio Syxty
PP. L’uso della voce risale alla mia prima azione performativa del 1996. Si intitolava Essere non esiste, o qualcosa del genere, e consisteva in una lezione di grammatica sul verbo essere nelle frasi che esprimono luogo e posizione. Al muro c’era un foglio di carta che faceva da lavagna, e davanti a me avevo steso due metri quadrati di prato finto su cui avevo sistemato una decina di lettori di cassette audio, i nastri che si usavano allora nei registratori. Sui nastri c’era la mia voce registrata che elencava una litania di esempi di frasi con il verbo essere e un complemento di luogo, come: io sono sotto la finestra, tu sei a destra del tavolo, lui è vicino al muro, eccetera. Durante la lezione — che era una lezione di grammatica strutturalista, che era quello che avevo studiato e su cui mi ero laureato — spiegavo cosa si intende per ‘frase semplice’ e come esempi portavo alcune delle frasi registrate. Poi cancellavo alcune parti di quelle frasi, modificandone il significato e arrivando a lasciare solo il verbo essere, che non significava più nulla. Nel frattempo, accendevo i registratori uno dopo l’altro, lasciando che la mia voce si sommasse a sé stessa, in una confusione di avverbi e preposizioni di luogo. Il mio desiderio era raffigurare uno spazio inesperibile se non con l’immaginazione linguistica, semplicemente evocandolo attraverso brevi frasi inespressive, e nello stesso tempo volevo introdurre una lezione di grammatica nel contesto di un pomeriggio di performance d’arte, che si svolgevano a Roma nello studio a Trastevere dello scultore Renzogallo. La rassegna era organizzata dalla rivista Opening.
In quel periodo ho usato altre volte la recitazione di frasi brevi. Ero ispirato dallo studio delle società orali e da certe pratiche di preghiera come i rosari o le litanie. In due occasioni andai avanti per tre o quattro ore, durante tutto il tempo della visita del pubblico, senza mai smettere di recitare lo stesso frammento. In un caso dicevo: “la verità è preziosa/la verità è schifosa”; e in un altro caso: “il visibile mi parla/l’invisibile mi sparla”. Erano litanie pseudo-filosofiche, di una filosofia secca, ossessiva, avvitata o inceppata su dei giochi di parole.
A quei tempi facevo attenzione a non caricare espressivamente il contenuto di quel che dicevo. Il mio ideale era una voce bidimensionale, svuotata di riferimenti soggettivi. Anche se poi, intorno a queste recite, costruivo dei teatri statici che amplificavano quella recita in una dimensione spaziale più complessa, che comprendeva anche degli oggetti o altri suoni più evocativi, come dei versi di animali o un rumore di pioggia.
Poi, negli anni, ho preferito lavorare sulle voci degli altri, mentre il mio intervento si concentrava sulla scrittura o sulla modificazione di testi non miei. E qui l’elemento espressivo o drammatico è diventato centrale. In particolare attraverso la messinscena di materiali politici come trascrizioni di dibattiti o interpellanze parlamentari. Questi lavori erano animati da un intento di falsificazione molto simile a quello di cui tu parli riguardo alle tue opere. Per esempio un breve dibattito parlamentare trasfigurato in un pezzo di teatro di Tennessee Williams e recitato con quei toni da realismo tragico. Oppure delle interpellanze alla comunità europea — che per tema avevano questioni riguardanti la definizione burocratica di arte e la circolazione delle opere d’arte — che io facevo leggere suggerendo una situazione interpretativa completamente fuorviante, applicando cioè il metodo dello straniamento in un modo eccessivo e patetico.
Antonio Syxty, foto archivio azioni e opere, courtesy Antonio Syxty
Che cos’è il pathos in una dinamica discorsiva? Il pathos è prima di tutto la separazione tra i diversi momenti o attori dello scambio di informazioni. Per esempio quando il destinatario non ha più accesso al contenuto, e il messaggio è vanificato. Il pathos era per me la funzione comunicativa portata all’estremo, quindi al ridicolo o al superfluo, e quindi al fallimento di ogni contatto tra il preteso contenuto del linguaggio e un supposto destinatario — mai individuato e sempre ipotetico. Il pathos distruggeva il contenuto, facendo emergere una nuova forma, inservibile, o forse utile solo a riflettere su come una lingua possa diventare un’allucinazione. Del resto c’è un contatto chiaro tra il pathos della forma e la patologia della forma.
Lungo questa strada sono arrivato alle recenti registrazioni della mia voce. Sono tornato alla mia voce dopo un po’ di allenamento a patologizzare le forme del discorso, quello politico e poi quello poetico letterario. Adesso la patologia riguarda finalmente il discorso sull’arte: la critica d’arte, la storia dell’arte, il parlare all’opera d’arte o dell’opera d’arte. Per varie ragioni, la scrittura dedicata all’arte è il materiale che prediligo, e che nelle mie opere cerco di sottoporre ad anatomia.
Non so se userei la parola “sciamanico”, dal momento che non si tratta di un rito e neanche vi è in atto una guarigione. Per me le frasi che ripeto, sono pezzettini di teatro mentale o intra-testuale, nel senso che la recita si svolge dentro un testo, tra le parole di un breve testo. Trovo interessante il concetto di “scultura vocale”, proprio per il fatto che la scultura consiste nel decidere i rapporti tra pieni e vuoti, tra volumi e spazi. Per me questi pieni e vuoti sono quelli che emergono nelle forme e nei concetti del discorso artistico.
Ci sono due modalità. Una modalità, completamente orale, è quella in cui ripeto una breve frase varie volte e ogni volta per due o tre minuti, in un ambiente scelto, quasi sempre all’aperto, e immaginando un determinato personaggio che sta dietro alla enunciazione. Queste frasi in genere hanno un senso ambiguo, ma il loro significato si chiarisce una volta che esse sono intese come facenti parte di un delirio sull’opera d’arte.
Un’altra modalità, completamente scritta, consiste invece nella composizione di testi a volte recitabili e a volte no, che nascono in dialogo con dei trattati di filosofia o libri di arte contemporanea, come la Teoria estetica di Adorno, o il catalogo di documenta 6. Solo che questo dialogo, io lo sperimento nella estremizzazione di un turbamento, come se la mia scrittura si scontrasse con un muro, e da quel muro e di quel muro potesse assorbire spinte, rumori, rimbombi, asperità. Quel muro è il discorso sull’arte. Forse non esiste il muro. Forse il muro è solo un’invenzione per poter scrivere rimediando all’assurdità dell’arte.
Antonio Syxty, foto archivio azioni e opere, courtesy Antonio Syxty
AS. Che ne dici se parlassimo di rappresentazione? È una riflessione che faccio in relazione a CUT>OUTS, e in generale a tutto il mio lavoro. Rappresentazione in rapporto a una pratica di falsificazione, nel mio caso, ma soprattutto a una modalità di rappresentazione nel/del processo artistico.
Le immagini (o ritagli) contenuti in CUT>OUTS per me sono “rappresentazione”. O ri-presentazione, o ancora meglio rammendi (anche re-enactment di immagini/environment) che diventano — sempre nelle mie intenzioni — depistaggi dal reale e dalla sua possibile rappresentazione. L’utilizzo delle immagini nel mio lavoro, unito alla scrittura, è una mia forma di rappresentazione del mondo, e dunque diventa scrittura visiva. Una sorta di scrittura o non-scrittura della realtà, legata ai vari periodi storici del mio percorso.
Nel caso di CUT>OUTS il periodo è relativo alle mie pratiche negli anni ’80. E comunque, all’interno delle sequenze-immagini contenute nella pubblicazione in questione ci sono anche dei “falsi” anni ’80 (simulazione e anche cross-over) che si mettono in connessione sempre per rappresentare o ripresentare un’intenzione a-temporale del frammento/immagine. L’idea (la mia) è che nella pratica artistica possa non esistere un tempo cronologico, ma una forma di a-temporalità della rappresentazione, e quindi anche una negazione della stessa, se messa in relazione al “suo tempo”.
Nel caso specifico di CUT>OUTS — nella curatela da te proposta per la pubblicazione — li considero anche rammendi (rammendo cucito, oggi a distanza di 40 anni, o ri-cucito secondo una continua pratica di re-visione della rappresentazione del mondo e della pratica artistica). Un rammendo (anche patchwork combinatorio) che si ri-presenta, ri-entrando in scena nel vasto mondo delle frequenze e delle pratiche artistiche che continuo a praticare oggi. Non sono quindi per me ri-evocazioni, o ricelebrazioni, ma ri-scritture, ancora una volta, di un più vasto Archivio del mio lavoro — tanto è vero che ultimamente mi hai consigliato di fare una mostra del mio Archivio, o di una parte di esso. Questa rappresentazione è sempre legata a una sorta di scrittura visiva del mondo, che poi in quegli anni era certamente più incernierata a forme verbo-visive, pittoriche, fotografiche, video e filmiche, ma anche — come è stato negli anni a seguire del mio lavoro — legata alla scrittura scenica e alla pratica professionale di regista di teatro (con derive nel cinema, la televisione, il video, la pubblicità, la moda, la musica leggera, la radio eccetera).
La poesia visiva degli anni 70, in Italia e non solo, era ovviamente anche legata ai movimenti eversivi, alla lotta poetica, alla lotta sociale, lotta di classe eccetera eccetera. In questo caso il concetto di rappresentazione mi pare più evidente (oggi potremmo tentare una analogia con la street art e con altre forme di disobbedienza di molti altri linguaggi e pratiche artistiche). Ma se affermiamo (almeno io lo penso) che ogni pratica artistica è politica — perché si inserisce come gesto o azione nel mondo reale — allora come si può secondo te dare una forma al concetto di rappresentazione nel fare arte? Quindi per continuare il nostro scambio ti chiedo che cos’è per te l'idea di rappresentazione (o ripresentazione) nella pratica artistica? Tu usi spesso un oggetto, una fotografia (un setting/enviroment fotografico in forma di performance), la voce registrata come installazione, la scritta sul corpo dell’abito (t-shirt stampata, spilla da appuntare sul vestito, cartolina o foglietto da mettere in tasca al fruitore dell’azione), tutto questo io lo leggo come pratica connessa a una “tua” forma di rappresentazione. È sbagliato o possibile quello che sto interpretando del tuo lavoro? Molto spesso (o quasi sempre?) usi il corpo (dell’artista, il tuo) nello spazio, in un percorso o processo di lavoro che diventa dislocazione concettuale della tua azione artistica, ma anche vettore della rappresentazione. È giusto dire così?
Tutte queste pratiche c’entrano, per te, con un’idea di rappresentazione? E se c’entrano, che significato dai alla “tua” rappresentazione del mondo reale, del mondo-arte-artista?
Antonio Syxty, foto archivio azioni e opere, courtesy Antonio Syxty
PP. Questa domanda è un ponte diretto tra la tua pratica e la mia. Comprendere cosa significhi oggi la rappresentazione, capire cioè lo spazio di attualità e attuabilità della rappresentazione nell’arte visiva, specie nelle derivazioni concettuali, è un punto cruciale per entrambi.
Da parte mia posso dire che agli inizi del mio lavoro artistico sono partito, come ho detto, da alcune pratiche di linguistica teorica apprese all’università, e che le ho usate male, distratte dal loro obiettivo scientifico, costrette a un destino non naturale. Questo primo passo per me è stato un passo estetico, cioè il momento in cui ho riconosciuto una direzione percorribile per la mia sensibilità. La mia direzione allora era quella di usare la linguistica in modo sbagliato, infruttuoso e un po’ maniacale. Il mio ready-made, la ‘cosa’ sottratta al mondo reale e spostata nello spazio dell’arte, non era un oggetto bensì una pratica di analisi lessico-sintattica di origine strutturalista, con cui cercavo di ottenere dei discorsi dall’aspetto vagamente poetico partendo da testi non miei. Attuavo così una doppia deviazione, sia del metodo e sia della materia.
Questa deviazione o questo processo si possono chiamare: rappresentazione? Sicuramente, quello che accade è che bisogna tenere fede in un trucco, cioè nella effettiva truccabilità dell’atto operativo. Trucco significa finzione, simulazione, e anche reversibilità dell’atto. Significa affermare che gli oggetti e le azioni non sono necessariamente legate a un obiettivo univocamente fissato.
Ma c’è un punto importante che attiene all’arte in modo specifico, e cioè il fatto che l’arte può definirsi interamente come un’attività truccata, anche quando i suoi effetti sono naturalistici, e forse anche di più. Il naturalismo dell’oggetto nudo, senza nome e senza linguaggio, è l’effetto di una rappresentazione. E questo lo si capì molto chiaramente quando tra le modalità del concettuale si inserì da un lato la pittura iper-realista e dall’altro l’uso studiato di situazioni e relazioni vive, viventi, che del reale assumevano la cifra della temporalità, dell’irripetibilità, della deperibilità. Non si parlava di rappresentazione, essendo il termine legato sia a una tradizione teatrale che a una visione classica della pittura come specchio della realtà. E tuttavia, ci sono certi aspetti della rappresentazione che non sono eliminabili, e si ha l’impressione che il disuso della parola sia più un problema retorico che non di metodo.
Si può pensare che nell’arte contemporanea la rappresentazione abbia scontato una messa fuori gioco; poiché l’arte contemporanea si è originata nella negazione della rappresentazione in favore della presentazione. Mi riferisco al ready-made, ma anche ad altre pratiche culturalmente connesse all’accesso o assunzione immediata e oggettiva del frammento di realtà, compreso il collage, o l’azione pubblica partecipata, alla Kaprow, o la scultura Minimal. Possiamo leggervi un rifiuto della messinscena, e il desiderio di inseguire una specie di crudezza idealizzata, magari credendo che la messinscena impedisse una diretta presa collettiva della realtà, ostacolata dal filtro di una architettura o di una moralizzazione imposta per via soggettiva. Quando poi ci accorgiamo però che tutta l’estetica del ready-made poggia sulla messa in luogo di una scena per l’oggetto, modificandolo, inquadrandolo, sostituendolo, metaforizzandolo in vari modi, fino all’estasi spaziale dell’oggetto nella installazione. E gli happening di Kaprow non facevano altro che usare la realtà contro sé stessa, immettendo nella realtà un ordine di regole e di relazioni che provenivano da un atto di finzione, dalla possibilità cioè di alterare le cose-come-stanno, facendo leva su una certa idea di teatralità. Questa idea di teatralità innestata nell’arte visiva si rintraccia in alcune condizione proprie dell’arte contemporanea: la definizione di uno spazio di accadimento dell’opera; la concezione dell’opera come insieme di regole del gioco; il continuo spostamento o critica della pretesa soglia di passaggio tra autenticità e finzione, e tra oggettività e linguaggio.
La rappresentazione contemporanea va letta in questo senso. Non nel senso di una duplicazione della realtà, come avviene nell’arte classica, ma piuttosto come unica possibilità di realtà. (Pausa) Il mio lavoro non può a fare a meno della finzione. Il metodo, se posso dire così, è radicato nell’ipotizzare, fare finta, provare a rifare quello che non ho fatto o che non è fatto, partendo già dal prefisso iterativo anche quando per assurdo non c’è niente di precedente né di originale, e trasferendo tutta l’energia del lavoro nella messa in crisi di una natura invece che nella ricerca di una natura. Da qui nasce anche la cura dell’imitazione, della parodia e della contraffazione, in particolare nei confronti della storia dell’arte, che negli anni è diventata il materiale su cui di preferenza lavoro. E credo nella tragedia e nella commedia dei materiali come finzioni per eccellenza, o come uniche vie di accesso o di costituzione di una verità dei materiali. Orientarsi verso il tragico e il comico equivale a far morire qualcosa, che è la condizione essenziale del tragico, costruendo nello stesso tempo la consapevolezza che questa morte è falsa e inutile, e tuttavia è la sola verità riconoscibile.
Da bambini pensiamo che la verità consista in una proposizione trasparente, con al centro il verbo ‘essere’. Facciamo coincidere la verità con l’identità, o la scoperta di un segreto. Invece, nelle scuole d’arte, si apprende che la verità può solo essere il risultato di una costruzione, non di uno svelamento.
Il segreto è semplicemente l’effettiva fattibilità e potenzialità del velo. Ecco perché la didattica artistica può tradursi in una autentica esperienza filosofica. Non c’è nulla di più filosofico che ragionare sulle giuste dimensioni di un foglio da disegno, o sulle caratteristiche materiali di un pezzo di stoffa da usare in una performance. La verità in arte è una scelta che si ripete e si afferma per tentativi e riformulazioni di uno stesso problema. La rappresentazione (o ripresentazione) è la riformulazione di un problema. E qui risuona anche una frase di Wittgenstein ripresa da Kosuth in una sua opera alla Galleria Nazionale di Roma, ossia un vetro trasparente su cui sta scritto: What you are regarding as a gift is a problem for you to solve.
Dunque considero CUT>OUTS una affermazione della verità del tuo lavoro proprio perché è una rappresentazione del tuo lavoro, il quale consiste principalmente nella ripresentazione, nella manipolazione, nella riattivazione di elementi non originali e, in definitiva, nella continua apertura di discorsi la cui chiusura potrebbe anche darsi come indeterminata. La proposta che ti ho fatto di riutilizzare del materiale che negli anni hai messo da parte – l’archivio di bozzetti, scritti e documenti fotografici, prelievi di vario genere rimasti parzialmente non governati – è un invito a non considerare come separati i momenti attuali del lavoro da quelli potenziali. Questo si può fare solo occupandosi del metodo, più che delle opere; e l’osservazione del metodo richiede la riapertura dei processi.
Una mostra che desse spazio a questo principio, non dovrebbe comprendere opere, bensì solo opere potenziali, e la progressiva ri-rappresentazione di un materiale inteso come problema di partenza.
Luglio 2024
Antonio Syxty CUT>OUTS, PIN*UP n.1, editor Pasquale Polidori,2023
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