Manuale d’uso

per la messa in scena di 


ROMEO e GIULIETTA 


di 

W. Shakespeare



per la regia di Antonio Syxty



con la traduzione e adattamento

di Carmen Gallo











Avvertenza:


Questo manuale è il frutto di uno studio approfondito e di riflessioni maturate intorno al progetto di messa in scena di questo testo shakespeariano. Si propone come una guida per addentrarsi nella struttura profonda della rappresentazione, offrendo spunti e indicazioni utili per coglierne pienamente la forma e lo spirito.

Pur presentandosi come un'opera teatrale a tutti gli effetti, lo spettacolo racchiude un’anima e un pensiero meno convenzionali, che ne arricchiscono il significato.

Le indicazioni contenute in questo manuale sono state inizialmente concepite per un uso interno, come supporto per coloro che hanno lavorato alla realizzazione dello spettacolo nei mesi di preparazione. Successivamente, si è deciso di condividerle anche con il pubblico, per offrire una chiave di lettura più approfondita e consapevole.

    Premessa a una possibile
    messa in scena

       (Giugno 2024)


Nella mia vita lavorativa come regista di teatro non ho mai preso in considerazione l’idea di mettere in scena Romeo e Giulietta di Shakespeare. Prima di questo testo mi sono cimentato con altri titoli shakespeariani, e non tutti per mia scelta: La commedia degli errori, Molto rumore per nulla, Il mercante di Venezia, Amleto, Enrico IV parte I e II. Avrei continuato anche con altri titoli se ce ne fosse stata l’occasione, ma mai con Romeo e Giulietta. Poi, due anni fa, mentre provavo uno spettacolo ho avuto l’intuizione di dover mettere in scena Romeo e Giulietta

E’ stato come un richiamo inconscio: raccontare “la storia delle storie” teatrali. Il motivo - lo ripeto - è inconscio. Forse l’età  (la mia) e forse ancora l’età (la loro) quella di due giovani protagonisti di una delle più note storie d’amore di tutti i tempi. 

Per come sono fatto, mi sono chiesto come avrei potuto e dovuto farlo, oggi, nell’epoca in cui sto vivendo. Sarei stato in grado di evitare la patina di romanticismo che si è depositata nei secoli sulla vicenda? Sarei stato in grado di evitare la senilità dello sguardo di un regista di teatro che fa questo da 40 anni? E cosa poteva rimanere al posto del romanticismo, dell’arroganza e della consapevolezza dell’età? 

Alla fine ha prevalso solo il desiderio che si possa ancora riflettere su come una grande “macchina del linguaggio” come quella shakespeariana rappresenti la vera utopia in grado di contrastare la distopia del linguaggio che stiamo vivendo, in una società che tende all’entropia negativa e allo sfaldamento, in favore di una sparizione continua del reale.



    Appunti di regia

        (Dicembre 2024)


Nella costruzione dello spettacolo ho scelto di procedere in modo anomalo rispetto alle consuetudini. Non ho iniziato le prove coinvolgendo l’intera compagnia (gli undici attori) né ho seguito per le prove un percorso lineare dalla prima all’ultima scena. Diversamente dal metodo tradizionale, che prevede alcune prove “a tavolino” per discutere la visione registica e l’interpretazione, seguite dalle prove sul palco secondo l’ordine cronologico del testo, ho adottato un approccio frammentato e cinematografico.  


Innanzitutto, ho chiesto alla traduttrice Carmen Gallo di realizzare un adattamento del testo basandosi sulla sua traduzione pubblicata nei BUR Classici Rizzoli nel 2023, lasciandole libertà di interpretazione. A partire da questo adattamento, ho suddiviso le prove secondo una logica simile a quella di un set cinematografico: in base alla disponibilità degli attori e senza seguire l’ordine cronologico delle scene. Questo ha comportato il passaggio continuo da un atto all’altro, da una scena all’altra, senza rispettare la continuità narrativa e drammaturgica.  


Ho chiesto agli attori di presentarsi alle prove con il testo già memorizzato. Ogni scena veniva costruita sul momento, esplorando il linguaggio e le dinamiche interne senza preoccuparsi del flusso narrativo complessivo, come se si stesse “girando” solo quella scena. Gli unici due momenti in cui l’intera compagnia si è riunita sono stati per la scena della festa (Atto I, scena 5) e quella finale (Atto V, scena 3).  


Il ciclo delle prove ha permesso agli attori di ritornare più volte sulle scene, consolidandole. In questo modo, ogni scena è stata “installata” in un disegno di messa in scena più ampio, finalizzato a creare una distonia interpretativa tra i giovani (Giulietta, Romeo, Mercuzio, Tebaldo, Benvolio) e gli adulti, le due casate in opposizione, gli “altri” della vicenda.  


Nella fase finale dell’allestimento, ho montato il materiale ricostruendo l’ordine shakespeariano della tragedia e “cucendo” le scene tra loro attraverso dissolvenze, proprio come in un montaggio cinematografico.  Anche le scelte musicali che ho fatto dipendono da questo tipo di procedimento e - a loro modo - come spesso faccio da anni, creano una traccia emotiva e drammaturgia che si costituisce come partitura sonora autonoma insieme alle parole del testo. Parole e musiche le intendo come tracce separate, che poi l’orecchio dello spettatore metterà inevitabilmente insieme nell’ascolto.


Perché questo metodo? Per sottrarmi alla tentazione di simulare una verosimiglianza romantica e pregiudiziale degli eventi narrati in una forma di messa in scena “consolatoria e restaurativa”, e per sottrarre gli attori all’intenzione di simulare una forma di “verosimiglianza” degli accadimenti e dei momenti emotivi e narrativi, senza vivere l’interpretazione pura del momento.


Questo approccio frammentato richiama il nostro modo contemporaneo di percepire il mondo, influenzato dallo “scrolling” sui dispositivi digitali: passiamo da una scena all’altra (comica, drammatica, emotiva, informativa, provocatoria, ecc), catturati da emozioni, curiosità o suggestioni, e seguendo un montaggio che sembra casuale, ma in realtà è dettato da algoritmi. 

In questo caso ho cercato di mettere in pratica una regia concettuale dell’opera con lo scopo di creare una “riflessione” sui fatti e sui temi della tragedia, ma anche una riflessione speculare con il comportamento contemporaneo che abbiamo nella fruizione di contenuti narrativi.  


Ovviamente, il teatro rimane qualcosa di molto più nobile, profondo, complesso e misterioso dei media digitali. Tuttavia, la nostra visione della realtà è sempre più condizionata da questa volatilità percettiva.  


Questo esperimento è stato possibile grazie alla potenza intrinseca di una delle vicende più celebri di tutti i tempi, orchestrata magistralmente da William Shakespeare. Una storia che ci è stata consegnata attraverso il “primo in folio” dei drammi shakespeariani e che è nota oltre ogni nostra reale conoscenza dell’opera poetica nel suo complesso.

In altro modo, e su un altro testo drammatico, questo mio procedimento non sarebbe stato possibile e mai lo avrei adottato.   

Il teatro è sempre, in fondo, per me una grande occasione per sperimentare processi creativi e per riflettere sulla sua funzione oggi, nell’epoca in cui viviamo.




    Nota sulla traduzione 

    di Carmen Gallo

        (Dalla prefazione alla pubblicazione 

        BUR Classici Rizzoli, 2023)


“Ogni traduzione è un atto interpretativo e di approssimazione. Nonostante l’impegno a restituire il più possibile, chi traduce è consapevole che qualcosa andrà perduto e stabilisce dunque delle priorità: in questo lavoro. la principale, che è bene dichiarare subito, è stata salvaguardare il più possibile la vivacità, la naturalezza e l’intensità della drammaturgia shakespeariana, per farla risuonare in una lingua italiana consonante con le forme del linguaggio, non solo teatrale, del nostro tempo.(…) Lo scopo non è attualizzare il linguaggio del dramma, quanto evitare di cristallizzarlo in una lingua poetica “astorica”, o in una declamazione altisonante, che rischi di appiattire l’esuberanza della parola shakespeariana con infondate pretese realistiche. Non assimilare, insomma, l’originalità della poesia del dramma a forme fin troppo consuete, che suonano tanto letterarie quanto distanti, certo molto più di quanto non lo fossero per il pubblico elisabettiano.”


    Nota sull’adattamento 

    per Antonio Syxty

       Carmen Gallo  (Luglio 2024)

 

 

Se Romeo e Giulietta riescono a trovarsi e innamorarsi nel caos e della ferocia della città di Verona è perché ciascuno a suo modo si sente estraneo a una società che li vorrebbe l’uno, Romeo, complice della violenza cieca di una mascolinità tossica e autodistruttiva che si esprime nella faida cittadina, e l’altra, Giulietta, poco più di una marionetta, addomesticata all'obbedienza filiale e alla ritrosia con gli uomini, da offrire in matrimonio nella speranza di una scalata sociale.

Dopo il loro incontro, invece, tanto imprevisto quanto fatale, Romeo e Giulietta sfidano apertamente la faida che li vorrebbe nemici riconoscendo nella società l’unico nemico. Al linguaggio violento quando non banale, stereotipato, inerte, delle loro famiglie e dei loro sodali,  Romeo e Giulietta oppongono un linguaggio tutto nuovo, che cresce scena dopo scena, e con con cui provano letteralmente a inventare la possibilità di un mondo nuovo, a partire da parole nuove, vive, tanto visionarie quanto concrete e reali.

Le parole dell’amore – assediate da un lato dagli stereotipi della tradizione letteraria [amore platonico per una donna crudele se non assente], quanto dalla volgarità oscena di Mercuzio, trovano negli amanti l’equilibrio perfetto di un amore tenero che non rinuncia alla sessualità ma anzi la rivendica come esperienza fondamentale.  L’amore è qui azione, performance, teatro: l’amore si fa, e non solo a parole, nel dramma.

Eppure lo scandalo che questo nuovo modo di parlarsi, amarsi, comprendersi, esporsi nelle proprie paure e fragilità, che denuncia le ingiustizie e il cinismo di una società violenta e patriarcale, vecchia e ottusa, non potrà che essere punito come atto di ribellione inaccettabile.

Alla fine del dramma, della sfida lanciata dagli amanti restano solo due statue, a memoria dello spazio di possibilità da loro aperto, ma anche a testimonianza della condanna – la loro passione diventa pietra inerte - e della necessità di contenere nell’effige rigida della morte la spaventosa e scandalosa libertà dell’amore vissuto fino in fondo e non solo immaginato a parole. 


Note per la scenografia 

di Chiara Salvucci

(Dicembre 2024)


Pensando a una possibile messa in scena mi sono confrontato con l’idea di creare un “dispositivo ottico” per lo spettatore e poi per gli stessi interpreti.

L’idea nasceva dal concetto di “vedere le cose”. Come vedere gli accadimenti, come considerarli, quale distanza o vicinanza il dispositivo può mettere in atto in chi lo usa, quali scelte può fare il dispositivo per l’occhio di chi guarda o di chi è guardato, e via di seguito.

Per fare questo all’inizio ho pensato a una serie di diaframmi che svolgessero la funzione dell’otturatore nella macchina fotografica. Una serie di diaframmi in grado di chiudere o aprire la visione, concentrarla o esaltarla, facendo trapelare luci e ombre del racconto. 

Un dispositivo necessario anche per separare idealmente il mondo dei giovani dal mondo degli adulti nelle vicende raccontate dal dramma.

Così i personaggi degli adulti avrebbero potuto o dovuto muoversi all’interno dei diaframmi, incorniciati e costretti in movimenti artefatti, per lo più paralleli alla cornice del diaframma, come in quei dispositivi ottici infantili di molti anni fa che alternavano i personaggi come figurine all’interno di un visore ottico rudimentale, una sorta di “teatrino ottico”.

Poi ho pensato che fosse troppo didascalico come meccanismo, e inoltre avrebbe separato troppo la scena dalla platea costituendosi come “ostacolo” alla narrazione.


Ragionando suo dispositivi ottici mi è venuto in mente il famoso dipinto di Diego Velázquez Las Meninas custodito nel Museo del Prado a Madrid. Un dipinto a olio (318×276 cm. realizzato nel 1656) che è diventato molto noto in quanto rovescia la prospettiva dello sguardo e dell’oggetto/soggetto del dipinto, invertendo i piani di visione, osservazione, e ritrattistica pittorica. 

Il dipinto ambienta il ritratto di Las Meninas (le damigelle d’onore) nell’atelier dello stesso artista con lui presente nel dipinto, nell’atto di “fare il ritratto”. 

Così ho pensato che avevo trovato il dispositivo ottico adatto alla messa in scena: un ritratto di famiglia che inverta i piani visivi e coinvolga lo spettatore e l’attore in un atelier d’artista, in cui viene citata - sulla nostra scena - la grande tela rovesciata sulla sinistra di chi guarda (come avviene per chi guarda il dipinto di Velázquez. 

Il nostro atelier/scena è sommariamente arredato, evocando un atelier più moderno, ma che diventa scenario, piedistallo, sgabello su cui poter poggiare e far agire i personaggi adulti del dramma, che compaiono a loro volta pronti a un “ritratto poco edificante di se stessi” nei confronti dei giovani, che utilizzano gli stessi spazi dell’atelier ma anche la platea che - con il boccascena - fa da cornice alla vicenda. 

I giovani del dramma agiscono per lo più “fuori cornice”, ma anche loro sono costretti a interagire con i personaggi adulti, dissonanti e artefatti, all’interno del “dipinto della messa in scena”.



Note per i costumi

di Giulia Giovannelli

(Dicembre 2024)



Seguendo l’idea del ritratto e della “posa”, i personaggi adulti del dramma sono concepiti come figure appartenenti a un sistema che opprime e inganna i giovani, conducendoli verso una morte annunciata. A partire da questa visione, ho invitato Giulia Giovannelli a esplorare liberamente un’interpretazione personale di ciascun personaggio, senza vincoli legati a riferimenti storici, genealogici, epocali o stilistici.

L’approccio si basa su una pura fantasia emotiva e narrativa del costume, che valorizza una caratterizzazione immaginifica e fantastica. Questo include richiami al cinema, alla graphic novel, alla narrativa fantasy, allo steampunk, ai videogiochi e ad altri mondi visivi e narrativi.

L’obiettivo principale è stato quello di evitare una logica descrittiva che colleghi il costume e l’aspetto dei personaggi a ruoli familiari, fazioni contrapposte, funzioni politiche, religiose o professionali. Al contrario, si è scelto di sviluppare una narrazione identitaria che utilizza i costumi come mezzo per amplificare volumi e colori, creando una ritrattistica volutamente estroversa, bizzarra e dissonante rispetto a una rigida filologia del personaggio.

In questo contesto, l’aspetto bizzarro, discordante e talvolta volutamente fuori luogo diventa un tratto distintivo, unico e profondamente identitario. È come un’orchestra poco accordata che, nonostante l’apparente disarmonia, contribuisce alla narrazione e al fluire degli eventi drammatici.

I personaggi appartenenti alla generazione dei giovani, invece, sono concepiti in totale libertà, lontani da un’estetica artefatta. I loro costumi si ispirano a una contemporaneità reinterpretata attraverso segni, colori e volumi, esprimendo una visione più diretta, immediata e fluida.



    Argomenti di interpretazione 

    dei personaggi per gli attori.


Gli attori incaricati di interpretare i personaggi adulti, responsabili della tragica sorte dei giovani, sono stati invitati a proporre un’interpretazione volutamente artefatta, caratterizzata da un’emissione vocale anti-psicologica. Questa scelta non elimina l’intensità emotiva, ma anzi ne amplifica l’effetto, creando un contrasto potente con la vitalità dei giovani.

La recitazione degli adulti si sviluppa attraverso dissonanze, afasie, contraddizioni e straniamenti, costruendo un linguaggio coercitivo che opprime i giovani personaggi. Questo linguaggio, composto da tonalità e ritmi musicali, si traduce in una sorta di "teatrino delle voci": un teatro di anime tormentate, dove le voci sembrano agite da convulsioni e contorsioni, vocali e interpretative. L’intento non è quello di creare una stranezza gratuita o espositiva, ma di incarnare un flusso incessante di menzogne, insulti, inganni e adulazioni che sembrano determinare il destino degli eventi.

La sfida principale è stata evitare il rischio di scivolare nel grottesco o nel farsesco, rinunciando a un’interpretazione che evidenzi in modo semplicistico gli aspetti negativi o ambigui dei personaggi adulti. Al contrario, l’obiettivo è stato quello di dare vita a un “teatrino degli orrori” o a una rappresentazione di giochi crudeli, messi in scena da una generazione adulta incapace di empatia o comprensione.

Per questa interpretazione, mi sono ispirato al lavoro di Meredith Monk, compositrice, performer, filmmaker e regista americana, nota per la sua ricerca innovativa nel campo della vocalità, della performance e del teatro-musicale. In particolare, ho tratto riferimento dalla sua opera "Book of Days" (1985), in particolare dalla sezione "Churchyard Entertainment", un'opera filmica che fonde musica, teatro e visioni artistiche. Le musiche della Monk ricorrono anche in altre parti della messa in scena, ma sono particolarmente significative nella scena della festa in casa Capuleti, dove sottolineano i movimenti e le posture con una straordinaria forza evocativa.

A questa rappresentazione distopica e dissonante dei personaggi adulti si contrappone la vitalità poetica dei personaggi giovani. Le scene tra Romeo e Giulietta, in particolare, sono state concepite per esaltare la potenza emotiva e visionaria del linguaggio shakespeariano. La loro relazione si sviluppa come un contrappunto lirico all’oscurità e alla rigidità degli adulti, con il verso poetico che diventa un veicolo di emozioni folgoranti e immagini evocative, in grado di illuminare i diversi momenti della vicenda.

In questa dialettica tra adulti e giovani, tra oppressione e vitalità, tra coercizione e poesia, si sviluppa il cuore pulsante del dramma, che mette a confronto generazioni incapaci di comprendersi, separando rigidità e autoritarismo dalla libertà e dall’immediatezza dell’amore e del linguaggio poetico.


    Argomenti di comportamento 

    e azioni per gli attori 

    di Susanna Baccari


L’approccio di Susanna non si limita a definire la spazialità necessaria o a coreografare le posizioni e i movimenti; piuttosto, si espande per toccare la dimensione emotiva e organica che, per l’attore, transita esclusivamente attraverso il corpo. Il corpo diventa così il veicolo principale per trasmettere emozioni e significati, creando una connessione immediata e potente con il pubblico.

Anche in questa messa in scena, il lavoro sugli interpreti è stato calibrato con precisione, in modo analogo al trattamento dello spazio scenico e dei costumi, per esaltare il contrasto tra le generazioni a confronto: il sistema degli adulti, rigido e meccanico, e il mondo dei giovani, fluido e vitale.

Il movimento scenico e il montaggio delle singole scene seguono i principi dell’installazione performativa e della centralità del corpo, evitando di scivolare in una rappresentazione psicologica convenzionale. Non si cerca una verosimiglianza narrativa o comportamentale legata a un realismo descrittivo, ma piuttosto un’organicità fisica che esalti la componente emozionale e simbolica del movimento. Qui, la parola e il verso poetico shakespeariano diventano strumenti evocativi, capaci di dipingere paesaggi interiori ed esterni, eventi e accadimenti che superano i limiti di una rappresentazione realistica.

Ad esempio, nei duelli e nelle uccisioni, come quelle di Tebaldo e Mercuzio, non è necessario ricorrere all’uso di spade o a coreografie tradizionali di combattimenti di cappa e spada. Si può invece optare per un linguaggio corporeo emotivo e stilizzato, che eviti il peso del realismo ottocentesco o novecentesco, concentrandosi sulla drammaticità intrinseca degli eventi. Questo approccio permette di spostare il focus dall’azione concreta alla sua risonanza emotiva e simbolica, rendendo il gesto carico di significato poetico.

Il lavoro di Susanna si colloca in una zona di confine tra ciò che viene mostrato e ciò che viene evocato, tra ciò che vediamo fisicamente in scena e ciò che immaginiamo attraverso il movimento e l’espressione corporea. Questo processo mira a una resa organica ed emotiva del comportamento e delle azioni, allontanandosi da ogni forma di artificiosità sterile.

In particolare, l’artificiosità dei movimenti e dei comportamenti dei personaggi appartenenti al sistema degli adulti – caratterizzati da posizioni contratte, oscillanti e meccaniche – si contrappone alla fluidità e alla staticità estatica dei giovani. Questi ultimi incarnano una vitalità poetica unica, riflessa non solo nel linguaggio, ma anche nel corpo, che si fa interprete della loro libertà e del loro tumulto interiore.

La tragedia di Shakespeare, in questo contesto, diventa una lente che rivela la distanza tra le generazioni, un divario che si esprime sia nelle parole che nei corpi. Gli adulti, bloccati in schemi rigidi e ripetitivi, appaiono incapaci di comprendere o accettare la vitalità e il linguaggio poetico dei giovani. Quest’ultimo, libero da vincoli, si manifesta in una dimensione più immediata e universale, rendendo visibile il cuore pulsante del conflitto generazionale.


    Il light-design della messa in 

    scena e il suono

    di Fulvio Melli


Anche la progettazione della luce, dell’ambiente luminoso segue lo schema del diaframma, della separazione fra la cornice, il quadro, e il “fuori cornice”, isolando gli spazi o fondendoli idealmente con le fonti luminose a favore di una narrazione libera e emotiva dei momenti scenici.

Per questo - parlandone con Fulvio - siamo convenuti sul fatto che la luce non è realistica, e non è disposta a simulare una descrizione degli ambienti secondo il passare del tempo nelle vicende narrate e negli ambienti descritti, ma si rende autonoma nel voler “scrivere” emotivamente la narrazione, creando i presupposti per una visione del quadro d’insieme, evocando atmosfere atte a sostenere la visione poetica shakespeariana.

Anche la luce come il suono si adegua a una forma installativa delle singole scene, accentuando la performance interpretativa degli attori.

L’uso del microfono in alcuni punti dello spettacolo ha una funzione documentale. Si pone come  media sonoro utile a una testimonianza pubblica e fuori contesto (o fuori cornice) del singolo momento narrativo scelto nel flusso poetico e drammatico della tragedia. 



    In conclusione


Chi si aspetta una messa in scena di Romeo e Giulietta consueta e vagamente rassicurante nei modi e nelle verosimiglianze alle quali siamo stati abituati dalla coltre di romanticismo che ha ammantato per anni quest’opera rimarrà forse deluso.

Questa messa in scena vuole riflettere sul linguaggio poetico shakespeariano e sulle azione degli esseri umani nel contesto delle contrapposizioni generazionali, sociali, di genere e cultura.

La costruzione dello spettacolo risponde a criteri di sperimentazione e di consapevolezza che il linguaggio poetico di uno dei massimi autori di tutti i tempi si installa come un potente schermo protettivo per una salvaguardia del pensiero, della ragione e del cuore. 

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