Il Teatro: è la Società dello Spettacolo?


La società dello spettacolo
(La Société du Spectacle) è un saggio dello scrittore e filosofo francese Guy Debord, pubblicato nel 1967, e forse qui non c’entra molto.

Oppure c’entra -  non per la precisa pertinenza del discorso del famoso fondatore dell’ Internazionale situazionista - ma c’entra se vogliamo riconoscere al teatro una certa ‘funzione’ che assume quando si alimenta e vive nella contraddizione del suo tempo, quando alimenta la situazione di deriva (détournement) del linguaggio a favore di uno spaesamento percettivo e significante. 


L’occasione è quella di uno spettacolo in scena a MTM - Teatro Litta - co-prodotto dal Teatro della Contraddizione di Milano, Manifatture Teatrali Milanesi e il Lac di Lugano nella persona di Carmelo Rifici che lo dirige e che fa parte anche lui di questa “impresa” produttiva.


Il centro del tema e delle scelte fatte da Marco Maria Linzi, regista e creatore dell’evento-spettacolo di cui scrivo - il cui titolo è  Miss Bartelby. Non è tempo di essere (da Bartleby lo scrivano di Herman Melville) che come si legge dalla stessa presentazione  si presenta come “…un dispositivo che contiene l'apprendistato esistenziale di Bartleby e in parallelo quello dei personaggi che lo circondano, lanciati alla ricerca del proprio posto nella società, creando una mutua relazione tra le due dimensioni…” offrendo “…un varco verso la riflessione sulle convenzioni sociali, le scelte morali e le verità individuali. Il tema è il dilemma dell'esistenza, tra chi vuole il tutto e quindi finisce per uccidere se stesso, o chi rinuncia a tutto e allora uccide la vita.” (e con un sottotitolo concettuale di genere che è Fantascienza speculativa)!



Ma non è tanto sul contenuto, sulla forma  o sull’architettura dello spettacolo che voglio fermarmi a riflettere (anche se anche il contenuto c’entra nel caso specifico anche di questa mia riflessione scritta), quanto sull’anomalia dell’operazione che si alimenta a sua volta di una forza e forma clandestina del fare teatro (da 20 anni, a Milano) che è propria del Teatro della Contraddizione.

Un fare teatro che opera ai margini, ai confini,  in clandestinità e nelle pieghe di un sistema che non lo riconosce e non lo vuole riconoscere. 

E per “sistema” non intendo un’entità aleatoria, ma un gruppo sempre più sparuto di maître à penser che negli anni non ha mai voluto prenderlo in considerazione. E in conseguenza “a questi” anche le istituzioni, gli operatori, gli accademici, gli studiosi non hanno mai voluto più di tanto “prendersi la briga” di “raccontarne” le ragioni, i metodi e i processi creativi (fatta forse eccezione per qualcuno negli anni passati, di cui però si hanno poche tracce).


Forse - e qui ritorno all’interrogativo del titolo che ho proposto e che ‘mi è venuto’ prima di iniziare a scrivere queste riflessioni (forse anche un po’ farneticanti) - è proprio la Società dello Spettacolo in cui viviamo a escludere lo spettacolo di un certo teatro, a meno che non sia garantito da corredi di “saggi illuminati” o “predicatori/influencer culturali” e che al pari di un Jan Fabre, di un Romeo Castellucci o di un Emma Dante (per fare solo alcuni nomi), non “ci garantiscono” lo spettacolo in questione. 


E allora la domanda che si pone - e si pone da tempo immemore - è: chi mai ci dirà che cosa ha valore nel campo della ricerca artistica? Lo farà il mercato? lo faranno i “mercanti” e tutti coloro che dall’alto o dall’interno di istituzioni pubbliche o private ci diranno dove volgere il nostro sguardo e la nostra attenzione quando si tratta di eventi che riguardano la ricerca nell’ambito dei linguaggi artistici?



Non credo possa essere così. Nessuno ci dovrebbe mai dire che cosa scegliere. (Anche se sempre più scegliamo in base al flusso continuo generato dal rumore di fondo dei social e da tutto ciò che è instragrammabile). Forse dovremmo accettare con coraggio di scegliere di stare in un tempo ‘altro’ che non sia quello dettato dal “tempo spettacolare” di Debord. 

Dovremmo armarci di coraggio e scegliere di non scegliere, per fare infine forse la scelta più giusta.


Credo si possa dare atto a Marco Maria Linzi e al suo ensemble artistico nel suo complesso, che dopo 20 anni di vita clandestina - nei sotterranei del Teatro Ufficiale e anche di quella “ricerca certificata” - di appartenere ancora e in definitiva  a quelle “cose sparite” che non si vedono tanto spesso, proprio perché la visione del mondo si è oggettivata, anche nel campo della ricerca artistica quando essa è un’inversione di se stessa proprio perché è “garantita”, da qualcuno o da qualcosa, da un contesto che ci giustifica ogni scelta.

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