TEATRO: ARTE COMPORTAMENTALE

W,M trasfusioni, Milano, 1979
Devo necessariamente fare una premessa.
La mia non è stata una formazione teatrale propriamente ortodossa.
Fin dagli anni del liceo classico frequentato a Ivrea, e di un intero anno vissuto negli Stati Uniti frequentando l'ultimo anno di High School alla Portage Central, la mia prima e unica vera fascinazione è stata l'arte visiva nella sua componente più concettuale.

La primissima contaminazione però è avvenuta attraverso la scrittura poetica di ricerca, la poesia visiva e concreta, che si sviluppava in segni, in scritture asemiche e grafiche.
Ma per arrivare a un dissolvimento della parola scritta (che ho tanto amato nei poeti della West Coast e negli scrittori del Big Sur, da Kerouac a Kesey, da Burroughs a Ferlinghetti), ho dovuto innamorarmi degli sperimentalismi di Ketty La Rocca, Mirella Bentivoglio, Gina Pane e tanti altri, che dalla scrittura sono passati alla performance art, uno per tutti Vito Acconci.

WWW, 1977
Quindi, è quello che ti succede a 14 o 15 anni che si porta dietro un insieme di stimoli, suggestioni, ipotesi, visioni che poi si mescolano e si intrecciano fra loro creando patchwork inaspettati fra i linguaggi creativi.
Per me è successo in modo confuso, passando da un libro a una fotografia, da una pratica (ai tempi del collegio con i recital di teatro) a un incontro di persona. Tutto contribuisce. O meglio tutto contribuiva negli anni in cui non c'era un algoritmo a fare le correlazioni fra un poeta e un artista, ma ci pensavi tu, casualmente. Ci pensava la tua mente, la tua immaginazione, la tua curiosità a cucire percorsi, a costruire gli ipertesti, a confondere i movimenti intellettuali e artistici. Eri tu stesso il tuo unico motore di ricerca.

Five commas, 1977
Ecco perché - tornando al teatro - posso affermare che - nel mio caso - non sono un nativo puro, ma un ibrido che fin da piccolo (e quando dico piccolo intendo prima dei 20 anni) accostava impunemente una fotografia di uno spettacolo di Memè Perlini a un'immagine sgranata di Ryszard Chiéslak nel Principe Costante a una foto di Vito Acconci trovata per caso in un libro di conceptual art americana.
Di fatto credo che il fascino fosse sempre legato al corpo come scrittura, e poi principalmente come comportamento.

In questo viaggio auto-prodotto alla ricerca di una scrittura visiva, concettuale, ma di fatto materica, passando appunto attraverso il corpo, si è inserito il teatro. Più volte l'ho dichiarato (credo mai pubblicamente però) che la "cosa" affascinante per me è sempre stata la condizione, la situazione, del corpo nella sua funzione comportamentale e per quanto riguarda il teatro nello specifico, nella sua funzione di alterazione identitaria.

Un comportamento illecito del corpo che "mente per dire altro". Mente per costruire una forma di vita in qui le identità cambiano, si relazionano narrativamente per costruire un'ipotesi di vita, una situazione che di fatto non esiste nella realtà del comportamento quotidiano. Una simulazione bella e propria e senza alcuna autorizzazione da parte della vita stessa.

Six on red line, 1977-1978
Un grande regista di teatro italiano Luca Ronconi sosteneva che tutto è rappresentazione.
Forse il bisogno di rappresentare pone chi fa teatro nella condizione di dover simulare "un'alterità della vita".
E poi lui aggiungeva anche: "per conoscere". Rappresentare per conoscere.
Ma non è questo che interessava me, da piccolo, e non mi interessa ancora adesso che sono più grande.
Il mio interesse era e continua a essere focalizzato sull'identità, sulla falsificazione della propria identità comportamentale che si fa a teatro.

Questo rapporto di falsificazione mi ha spinto a voler studiare il teatro dal vivo, nel suo farsi, nel suo costituirsi forma e grammatica di linguaggio.
Partiamo dal presupposto che ho sempre trovato piuttosto assurdo che qualcuno si mettesse nelle condizioni di mentirmi per farmi credere a una verità inventata, alterando il proprio nome e il proprio comportamento. Un gioco da bambini, alla fine.
Sì, è pur vero, nel fare questo c'è un aspetto lirico e poi uno drammatico, commovente se vogliamo, ma è pur sempre una menzogna bella e buona.

Per me l'aspetto più interessante è sempre stato la condizione in cui si pone il corpo, la mente, di colui che instaura questo gioco (l'attore). Perché lo fa e come lo fa.
Questo volevo sapere quando appena finito il liceo a Ivrea sono andato prima a Roma e poi a Milano a vedere se potevo entrare in un'accademia di teatro, dove si studiava appunto quel tipo di comportamento, quel tipo di finzione/menzogna, dove si potevano imparare le tecniche per la falsificazione della propria identità, da mettere in atto per un paio d'ore ogni sera, davanti ad altri convenuti per l'occasione (il pubblico).

Mi appare chiaro ora - a distanza di moltissimo tempo - che avevo fatto un parallelo del tutto improprio fra una fotografia di Marcel Duchamp nei panni di Rrose Sélavy del 1921, o una di Urs Luthi nel 1972, con l'identità falsificata di un attore nei panni di un Macbeth o di un personaggio borghese come il Costruttore Solness.

W,M dreamer of a dream, 1979-1980
Nelle mie intenzioni personali non c'era solo la volontà di studiare il modo ma di praticarlo. Ho voluto prima sperimentare io stesso senza "studiare" o apprendere le arti mistificatorie della forma teatrale.
Nella pratica ho iniziato da subito (ancora prima dei 20 anni) facendo installazioni d'arte, producendo opere su carta e su tela, inserendo gradualmente il corpo (il mio) in "azioni" che erano legate a un progetto visivo e performativo decisamente concettuale.
Queste "azioni performative" erano progettate in ambienti e installazioni, festival e rassegne, gallerie d'arte e paesaggi urbani o interni privati. Erano esperimenti che si "situavano" nello spazio e nel tempo della vita reale. Per questo qualcuno mi considerava in quegli anni un artista situazionista (e di fatto mi considero tale ancora oggi), un artista comportamentale.

La performance mi ha insegnato che il corpo doveva compiere delle "azioni" che scrivevano il presente, scrivevano un presagio, un concetto, un sentimento, una condizione. Non ero solo perché - in quegli anni ero confortato da grandi modelli di artisti come Chris Burden, Vito Acconci, Gina Pane, Joseph Beuys, Bruce Nauman, John Baldessarri, Marina (Abramovic) e Ulay, gli artisti FLUXUS e moltissimi altri.
Di fatto erano gli anni magici in cui Allan Kaprow, con i suoi happenings si accostava alle azioni di strada del Living Theatre. Anni in cui lo scontro era focalizzato sulle differenze fra performance e teatro. Cosa era performance e cosa era teatro (e sono seguite in quegli anni numerose argomentazioni e polemiche al riguardo).

W,M 108 tentativi di salare il sale 1977
Io però ero di fatto inchiodato alla mia curiosità principale: la falsificazione dell'identità.
Esisteva un luogo chiamato palcoscenico in un edificio chiamato teatro nel quale alcune persone si riunivano e inventavano un comportamento ispirato o dettato da una narrazione più o meno drammatica, più o meno contemporanea.
Questo comportamento era totalmente artefatto, o meglio si nutriva della realtà (la reale identità di chi lo metteva in atto) per ricreare un comportamento totalmente "inventato", fasullo, improprio, (assurdo per me), ambientato in una scatola con 3 pareti fisiche e una immateriale chiamata "quarta parete".
(e ci sarebbe molto da dire sull'ingaggio voyeuristico di un pubblico invitato a sbirciare per il buco della serratura grande come un'intero boccascena!)

Il mio interesse era dunque mutato (dall'arte verso il teatro) per provare a mettere in pratica questa nuova forma (per me) di realtà virtuale, che di fatto esiste in un tempo preciso, da una certa ora a un'altra, e poi tutto si spegne e la scatola torna buia.

Donna con forbici, Milano, 1982
Ho imparato tutto osservando gli attori, avendo una grossa compassione per loro, che di fatto mettevano in atto un meccanismo commovente, quello di "fare degli altri da se stessi", con la coscienza di essere solo specchio (come insegna appunto Amleto): un immagine evanescente e immateriale, riflessa dalla realtà (o riflesso della realtà?).

Ma tornando al compito dell'artista per come lo intendo io: non c'è soluzione di continuità per quel comportamento (quello del teatro, intendo). Oggi, continua a reiterare se stesso riproponendosi, mutato in alcuni aspetti, forme, linguaggi, rischiando però di fatto di perdere efficacia nella sua forma più misteriosa, rituale, sciamanica.

Questa perdita di efficacia del teatro oggi è dovuta alla reiterazione del comportamento, della sua blisterizzazione in generi e contenuti, nella sua vita impropria sorretta dalla sola vanità. Una perdita che diventa progressiva quando diventa solo scrupolo culturale di una società abbiente, evoluta, in grado di programmare la propria vita e quindi anche il proprio svago culturale. (ovviamente non mi riferisco allo scopo ricreativo e di intrattenimento della forma spettacolo dal vivo, ma alla pretesa culturale di tanto teatro che si fa nel mio paese, con la sola pretesa di rappresentare cultura e bellezza, scandendo in retorica, romanticismo e vanità, di cui anch'io sono stato preda per molto tempo)

L.O.O.K. but not, 1977, Como
Ecco perché, a un certo punto del mio percorso (nel quale mi sono anche ricavato una professione come quella di regista) ho deciso che era giusto per me riprendere la strada dell'azione concettuale, del camuffamento (l'artista che diventa "l'idiota del sistema"), del pensiero divergente, dell'arte relazionale, della pratica legata alla riscrittura del corpo in ambiti e contesti legati alla performance.

Fin dall'inizio l'unica spinta che mi ha sempre animato è quella di praticare l'arte in veste di alchimista, (in questo ancora e sempre più situazionista!), animato dalla curiosità e dall'osservazione dei comportamenti dell'uomo/mondo, oggi più che mai messi alla prova dall'imprevedibilità della natura.












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