Teatro: una riflessione tra forma e contenuto
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Il teatro è di per sé una forma di riflessione del mondo e di conseguenza sul mondo.
La sua prima funzione dovrebbe essere proprio la riflessione in quanto specchio. Amleto lo spiega bene ai comici che gli fanno visita a corte e con i quali progetterà il dispositivo ottico in grado di accusare il re Claudio della morte del padre davanti alla famiglia convenuta per l’occasione della recita.
L’ho definito come dispositivo ottico non a caso, in quanto si tratta di una scena pantomimata, concordata in precedenza fra Amleto e i comici, per mostrare l’ipotesi del triste accaduto che lo trascina all’interno di un mondo che lui sente essere fuori asse.
Ecco, se intendiamo il teatro come dispositivo ottico, lente, o lanterna magica attraverso la quale guardare il mondo, noi guardiamo il mondo in uno specchio che è (dovrebbe essere) quello del teatro. Quindi la funzione del teatro è quella di non essere mondo, ma essere specchio, e quindi dispositivo atto alla visione, o a una visione riflessa, specchiante.
In questo modo il teatro assume una forma, che nei secoli ha subito innumerevoli trasformazioni adeguandosi al contesto storico, culturale, sociale della propria epoca, affermando in questo modo la sua necessità e funzione. Ovviamente, in quanto forma mutante nel tempo, ha subìto le necessarie o casuali modifiche che ogni epoca o contesto storico gli hanno imposto per rimanere fedele alla sua funzione di dispositivo, espandendo in molti casi una forma spettacolare.
In epoche passate questo dispositivo era connaturato con il desiderio di rappresentazione e di narrazione del mondo e delle vicende degli uomini. Nella nostra epoca il dispositivo viene a confondersi con le migliaia di dispositivi che abbiamo a disposizione per vedere il mondo che stiamo vivendo attraverso un dispostivo-specchio.
C’è da fare un’altra riflessione all’interno di questa riflessione del mondo ed è questa: che il teatro non nasce - alle sue origini - come dispositivo, ma come installazione di un comportamento umano. Alle sue origini il teatro, prima di strutturarsi come forma, si è manifestato come comportamento rituale nella necessità di “disobbedire” a un comportamento sociale consueto proponendosi come rito orgiastico, rito religioso pagano, senza una forma ancora definita, ma come estroversione di un comportamento individuale, comunitario e sociale. Il teatro quindi non nasce come forma, ma come comportamento. Un comportamento messo in atto in un determinato tempo, in una determinata occasione, come rito collettivo di una comunità, che veniva a installarsi nello scorrere del tempo e della vita di questa comunità. Era un teatro che si manifestava come azione del corpo fisico e mentale in una ritualità che nasceva per manifestare e manifestarsi. Il teatro - sempre alle sue origini - era una lingua del corpo che si installava nella vita del corpo, attraverso una diversa manifestazione del corpo. Ciò avveniva per alcuni (gli officianti) all’interno di una comunità più ampia (i partecipanti).
Nello strutturarsi come forma, intesa anche come luogo, ha continuato a evolversi in altre forme, generi, linguaggi e caratteristiche specifiche, funzionali a una narrazione. Questa narrazione ha generato i linguaggi e i canoni necessari per una codificazione, che si è determinata via via per gusti e generi, derivando svariate forme, dall’antichità a oggi.
Ora se consideriamo il teatro come un comportamento altro dell’essere umano, potremmo in qualche modo parlare di mistero. E’ misterioso che il comportamento umano senta la necessità di alterare se stesso, espandendosi in altri comportamenti che vengono a installarsi a loro volta nel fluire della vita degli individui. E così il teatro diventa tante forme spontanee o progettuali di installazione: tante narrazioni, dalle più gioiose e euforiche a quelle più drammatiche (pensiamo per esempio all’espressione teatri di guerra).
La forma del teatro quindi riflette (dovrebbe farlo) le alterazioni della vita, misteriose, compulsive, divergenti, inspiegabili, misteriose, appunto.
La mia personale esperienza di percorso nella pratica del teatro nasce esclusivamente dall’arte visiva e concettuale come installazione e come situazione (comportamento). La mia formazione autodidatta in ambito artistico ha utilizzato inizialmente l’installazione (scrittura, progettazione, azione) e in un secondo tempo la performance d’arte come comportamento euforico e divergente del corpo come segno artistico. Erano gli anni degli happening e delle performance in ambito strettamente artistico promulgate e messe in atto in gallerie e spazi per le esposizioni dell’arte.
Il segno del corpo era sotto forma di azione artistica e poi di azione “teatrale” per via della sua accezione performativa e per le derive che si andavano creando trascendendo i confini dell’arte visiva e concettuale che erano (e ancora sono) le mie zone d’azione.
Quindi, sempre nel mio caso, alla base dell’esperienza artistica e installativa si è aggiunto il corpo come azione di performance. In questi termini non ho mai pensato al contenuto della mia pratica come narrazione, ma solo alla forma del comportamento come linguaggio artistico, come segno. Con l’evolversi di una personale consapevolezza ho creduto opportuno studiare il teatro come forma di falsificazione del comportamento e dell’identità, un aspetto che veniva a connettersi con la mia ricerca artistica, di scrittura e progettualità artistica di quegli anni fino a oggi. Da questo studio, frequentando per un biennio una delle scuole più riconosciute in Italia (Piccolo Teatro di Milano) il passo successivo è venuto di conseguenza: praticare nella sua forma estesa di rappresentazione la funzione della regia, che progetta e realizza la forma. Nella mia pratica però non ho mai dimenticato di definire il teatro - per quanto mi riguarda - un’arte comportamentale e relazionale, spesso anche a scapito del contenuto, soprattuto quando il contenuto diventa “tematico”. La tematica è una delle caratteristiche che oggi privilegiano bandi, concorsi e ambiti produttivi di cui non si può più fare a meno per certificare la funzione di “cura sociale e culturale” che il teatro si carica sulle spalle in un mondo che vede nell’avvertenza dell’etichetta sul prodotto una salvaguardia dei danni collaterali.
Questo è il punto fondamentale, che a distanza di oltre 40 anni di pratica nel teatro (ma non solo), mi muove una riflessione necessaria fra forma e contenuto, e nello specifico di quanto la forma si confonda con il contenuto e viceversa, elidendo in qualche modo un’essenza impalpabile e misteriosa che è principale motore immobile o macchina celibe (di marca duchampiana) del linguaggio.
La forma e il contenuto si fondono - come sempre nei vari linguaggi dell’arte - nella trasformazione in “prodotto culturale”. Come ogni prodotto anche il teatro fa riferimento a una categoria di fruitori e consumatori, circoscritti in generazioni, gusti, status sociale e culturale e via di seguito. Questo avviene inevitabilmente perché esistono forme e contenuti ai danni di un utilizzo consapevole del linguaggio artistico come scardinamento delle categorie merceologiche.
Oltre a ciò, forma e contenuto miscelandosi in un “prodotto culturale”, diventano nella nostra epoca uno dei tanti dispositivi da utilizzare per “consumare un’esperienza” che a sua volta diventa una delle tante esperienze paragonabili a quelle più disparate (dai viaggi alla ceramica raku). E va aggiunto, senza paura di diventare cinici, che forma e contenuto del teatro che si produce oggi nel nostro paese sono anche garanzia di “messaggio”: che quanto si sta facendo è utile a qualcuno per mandare un messaggio, e a qualcun altro di recepirlo. Un servizio postale insomma!
Se paragonassimo il teatro a una lingua potremmo affermare che è una lingua parlata da pochi. Pochi ne fanno uso. Un esiguo numero di individui la conoscono, la praticano, ne determinano o confermano le evoluzioni creando neologismi e modi di dire.
Se il teatro fosse una lingua solo alcuni potrebbero capirne le potenzialità di utilizzo, e sempre meno ne capirebbero le possibilità di una forma-linguaggio, o di una forma del linguaggio, nella sua funzionalità di vettore di comunicazione e di alterazioni del linguaggio stesso.
In tempi moderni, senza una forma, il teatro è difficile da individuare e catalogare, e allo stesso modo anche il contenuto di questa forma diventa riconoscibile e/o consolatorio per quanti desiderano - fra le altre attività - “consumare cultura".
Rimane inteso che per “forma" possiamo intendere anche gli edifici preposti al suo svolgimento, le costruzioni in mattoni e cemento, i teatri. Allo stesso modo possiamo intendere come “forma” gli individui - i lavoratori dello spettacolo - e comprendere con loro gli “abitanti occasionali” di queste costruzioni in coloro che frequentano questi edifici come pubblico o come "addetti ai lavori”. Dopo aver individuato edifici, lavoratori, generi e canoni spettacolari, possiamo incasellare il teatro in una forma di spettacolo dal vivo più o meno sorprendente, più o meno di tendenza, più o meno conturbante o consolatorio, senza nessuna paura di essere smentiti da una società che si definisce “civile”. Facendo questo però imprigioniamo il pensiero e l’azione del pensiero a favore del prodotto culturale, come rassicurazione e baluardo di civiltà.
Se facciamo un paragone con la pittura potremmo dire, con le parole di Marcel Duchamp, che stiamo parlando di una forma d’arte “retinica” a svantaggio di un utilizzo divergente del linguaggio artistico nel suo complesso di visione e mistero. E se dovessimo prendere a paragone l’affermazione di Joseph Beuys “ogni uomo è un artista” potremmo dire che “ogni uomo è teatro”, nonostante la forma e il contenuto del prodotto-spettacolo.
A questo punto come potrebbe il teatro disgiungere la forma dal contenuto? Dovrebbe farlo? E perché dovrebbe farlo? Non sarebbe più teatro in questo modo? Sarebbe utile toglierlo dalla sua funzione di “prodotto culturale” insieme a milioni di altri prodotti? Quale sarebbe la ricaduta di questa ipotesi da un punto di vista economico, sociale, culturale? Quale beneficio potremmo averne - intendendola con le parole di Beuys - nel pensare il teatro come pensiero e azione estetica nel quotidiano della vita degli individui? Che cosa succederebbe se il teatro fosse meno “retinico” e più misterioso e invisibile, seguendo la determinante e provocante affermazione di Duchamp nei confronti della pittura?
Forse queste domande potrebbero risultare inutili in quanto il teatro non può manifestarsi che come forma, che diventa nel bene e nel male un vettore di contenuti culturali, sociali, tematici. Ma allora perché porsele? Forse per denunciare il mio personale disagio nel perpetrare una pratica professionale? O per pensare il teatro come utopia e non come prodotto? Certamente queste domande sono anche il termometro di un’impossibilità di sottrarsi alla consuetudini culturali, alle inerzie di pratica e percorso. Sono forse anche interrogativi sul “fare” regolato da un sistema produttivo nazionale che è ormai interamente regolato, nel suo flusso di dati, da algoritmi preposti a analizzare, indirizzare, conformare i prodotti culturali spettacolari alla stregua di ogni altro prodotto generato e distribuito, ai fini di una contribuzione economica da parte degli istituti culturali preposti nel nostro paese (Comuni, Regioni, Ministero).
Se non si può uscire dalla forma rimane comunque l’utopia di un pensiero che possa restituire almeno in parte un processo creativo che si ponga delle domande sul proprio scopo e svolgimento.
Una cosa è certa - io per primo e con me molti altri - quando pratichiamo e lavoriamo per il teatro dovremmo essere consapevoli del fatto che la strada che percorriamo è quella di creare un falso specchio della realtà e non quello specchio che ci permetterebbe di entrare in un altra dimensione del pensiero umano e artistico, scardinando le certezze che stiamo proponendo un “prodotto culturale" in una realtà che vorrebbe contrapporre la “Cultura” allo spettacolo, spesso poco edificante, del mondo e delle azioni degli uomini nel mondo. Oppure - al suo contrario - potremmo definire il nostro operato come una consapevole elaborazione di una progressiva e ineluttabile cancellazione della possibilità catartica del teatro, nel senso che il teatro come forma e contenuto non sovverte i piani di realtà, ma li conferma nel suo procedere inerziale, come uno dei tanti dispositivi in uso per confermare la realtà per quello che è.
Forse possiamo consolarci pensando che stiamo svolgendo una funzione utile ai fini della cultura generale dell’individuo, con un solo vantaggio a nostro favore: la sua presenza “aleatoria” nel contesto della “registrazione del reale”.
Personalmente penso a questo come una delle poche funzioni positive: creare qualcosa che si cancella per sua natura, in un processo continuo di progettazione che poi - di fatto - si concretizza in uno spettacolo all’interno di quella società dello spettacolo (di debordiana derivazione) che continua a irretirci con una mistificazione volta a giustificare i rapporti sociali di produzione vigenti.
Quando penso al teatro che si pratica e produce nella nostra epoca, e principalmente nel nostro paese, mi viene in mente l’ultima sequenza del film Full Metal Jacket quando tra le canzonette improvvisate dei Marines (come l'inno ufficiale) spunta su tutte la marcia alienante e diegetica di Micky Mouse, simbolo di un regresso dell'individuo a uno stadio infantile e immaturo, uno stadio di ominidi governati da istinti elementari e in preda ad attacchi animaleschi.
Antonio Syxty, febbraio 2025
Le immagini sono di Antonio Syxty (Milano,11 febbraio 2019) Performance/Azione teatrale "Rooms For Secrets"https://youtu.be/W1C-ESIh-4w?si=vuHzdbrBHdNwd_vU

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