Zio Vanja. Un viaggio nel tempo (parte seconda)



20 dicembre 2023.

Questo Zio Vanja continua il suo processo anomalo di lavorazione.


Anomalo perchè - come già accennato - non c’è stato un momento di preparazione a tavolino, come di solito si fa quando ci si appresta ad affrontare un  testo di teatro. La preparazione è un momento in cui il regista si confronta con gli attori su idee e punti di vista. Questo Zio Vanja è stato subito messo in prova con la vita delle persone che hanno accettato di farlo vivere

Si è deciso di procedere per autonomia di interpretazione e “sentimento” (nel senso del sentire)

Gli appuntamenti e le occasioni delle prove sono stati stabiliti a discrezione degli stessi attori che si sono incontrati  fra loro in base alla suddivisione delle scene e alla loro presenza come personaggio. Ciò è avvenuto anche in base al fatto che loro si frequentano quotidianamente da anni e si conoscono molto bene, per questo avevano carta bianca per trovare rapporti e dinamiche interpretative secondo un loro sentimento. Questo si era stabilito all’inizio del progetto - e in comune accordo - sull’essere coesi nel poter intraprendere questa strada verso Zio Vanja


Una seconda fase ha previsto la mia presenza o quella di Claudio Orlandini alle prove delle singole scene, in modo da poter verificare le proposte e i primi tentativi fatti dagli attori . Il più delle volte eravamo insieme - Claudio e io - a guardare e lavorare, in un reciproco confronto fra noi, al di fuori delle prove di fatto.

A questo punto è iniziato un lavoro in profondità su come affrontare le dinamiche fra i personaggi e il loro vissuto (portato dalle parole di Cechov), determinando per me alcune riflessioni sul tempo


Il tempo in Cechov


In Cechov c’è il rapporto con il tempo che è misterioso e determinante. Il tempo nel suo scorrere degli anni, le età, gli avvenimenti. Ma anche il tempo delle stagioni e poi quello atmosferico con temporali, schiarite, piogge, sole, afa. 

E poi c’è lo scorrere del tempo attraverso le ore del giorno e della notte, quando non si riesce a dormire e si parla, ci si lamenta, si fanno discorsi di “bassa filosofia”. 


Cechov crea delle sinfonie, con gli allegri, gli adagi, i minuetti, i finali, in calando, in crescendo. Cechov è un compositore dei movimenti dell’animo umano e riesce a farlo suonare (e risuonare) come nessuno scrittore moderno di teatro ha mai fatto. 

Le sue battute sono note musicali che procedono in minuetti, in assoli, in concertati, che si ripetono, si avvicendano in variazioni sullo stesso tema, fino a commuovere l’animo di chi ascolta, in accordo con quello di chi racconta e parla di sé.


Il guaio di noi che lo abbiamo tradotto - con più o meno frequenza - nella vita e nel comportamento del palcoscenico è quello di aver pensato ai personaggi creati da Cechov e non alle loro anime imprendibili, sfuggenti, ma drammaticamente vere, reali, come sono quelle di chi è seduto in sala. Il più delle volte Cechov lo si affronta pensando di avere già un’idea che si è sedimentata nel corso dei decenni e nelle numerose messe in scena dei suoi drammi.



E così, nel corso degli anni, nei modi, negli stili, nelle epoche storiche e sociali in cui è stato rappresentato ognuno ha fatto il “suo” Cechov, chi meglio chi peggio. Qualcuno - come Peter Stein - ha anche suggerito che noi italiani siamo “inadatti” a mettere in scena Cechov per via del nostro modo di esprimerci, concitato, vivace, colorito, gesticolante.


Lavorandoci ora - per la terza volta dopo Il Giardino e Il Gabbiano - mi rendo conto di quanti errori ho fatto io stesso, e quanti ancora si  possono fare se “si fa teatro” con Cechov. 


C’è un accumulo di toni, modalità, luoghi comuni, continue forme di assertività, una certa presunzione di “sapere come va fatto”, insomma “un’idea di Cechov” che ci viene da una consuetudine nel metterlo in atto, che ci viene da usi e costumi di un teatro borghese che abbiamo frequentato molte volte, un teatro che insegue la verosimiglianza più becera, che alimenta e giustifica attori e attrici - seppur bravi - “che parlano” perché “la sanno a memoria”.


Gli attori “parlanti” - a mio avviso - sono un po’ la rovina del teatro contemporaneo. 

Non è certo colpa loro, ma del costume a fare qualcosa che sia efficace, evidente, consolatorio, pieno di toni e musicalità vuota nel porgere la parola.



In alcuni casi,  che reputo deleteri e orripilanti, Cechov ha alimentato anche e in alcuni casi, nel nostro paese, “esperimenti” e travestimenti di bassa lega, di teatranti che ne hanno inteso fare qualcosa di buffo, simpatico, leggero (perché Cechov è risaputo - almeno alcuni ne sono convinti in modo elementare) è anche comico.

Ma la comicità, nel teatro di Cechov, nasce dalla vita, dai contrappunti degli avvenimenti, da come la vita crea degli accostamenti e accadimenti che risultano comici in chi ascolta e guarda il lento scorrere della vita.


Quanta povertà d’animo nel non voler "ascoltare" quello che ha da esprimere uno scrittore di teatro che ha anticipato l’uomo del ‘900, e che ancora commuove chi parla e racconta!  

La vera disdetta - a mio modo di pensare - è quella di “affrettare le cose”, quando in realtà ci vuole tempo a capire cosa succede nella vita.


E spesso non c’è “niente da capire”, perchè come dichiara uno dei più importanti artisti del novecento, Piero Manzoni: “non c’è nulla da dire: c’è solo da essere, c’è solo da vivere.”






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