Giovanni Testori, racconto di un incontro avvenuto nel 1987

     Incontrare un maestro


Durante gli anni di una vita caratterizzata da un percorso artistico, vissuta nell’ipotesi e poi nella pratica di un comportamento che si prefigge di operare sul linguaggio, si può avere l’occasione di incontrare uno, due o al massimo tre maestri, se si è fortunati. Io credo non di più.

Ma che cosa si intende per “incontro con un maestro” in ambito artistico? 

A mio modo di vedere hai incontrato un maestro quando hai incontrato una persona che al pari tuo opera nel campo artistico da molti più anni di te, e che rispetto all’esperienza accumulata non vuole insegnarti nulla (a dispetto del termine “maestro”), ma in qualche modo esprime un carisma che ti coinvolge totalmente spostando ogni tua previsione o aspettativa.

E come avviene questo incontro? 

E perché - a distanza di tempo e magari non nell’immediato - hai la netta sensazione di aver incontrato un maestro? 


Personalmente credo che sia un insieme di fattori. Il primo è dovuto a uno scambio di saperi che sembra alla pari, ma in realtà non lo è, perché è frutto della sua curiosità (quella del maestro) nei tuoi confronti, quasi a significarti che la tua inesperienza e il tuo interesse nei suoi confronti - se è onesto e sincero - ha un grande valore per lui, come se per lui fosse un nutrimento.


Un maestro quindi è curioso di te, ti stimola, e non ti corregge. Ti vuole conoscere, ma nello stesso tempo si specchia in te. Si sente come te quando aveva la tua stessa età, ma non te lo dice, anche se tu lo avverti. E non fa niente per insegnarti qualcosa. Lascia trasparire il fatto che ha ancora molto da scoprire e imparare, forse anche da te. 


Non ha mai la presunzione di sapere più di te. Non è assertivo. Ti ispira il dubbio costante su ciò che ha fatto lui e ciò che stai facendo tu. 

Non esprime certezze. 

È cauto nel giudicare anche se è fermo su alcune idee e sfrutta gli aneddoti della sua esperienza per ripercorrere la sua vita con te, quasi tu fossi indispensabile per il suo cammino, depositando così in te una traccia di vita che con il tempo tornerà a manifestarsi generando stupore.


Tutti gli altri che incontrerai sul tuo percorso non sono maestri, ma semplici “tutori”, o al massimo ministri di un culto personale che - a mio avviso - ha poco a che vedere con la figura di un maestro. 


Nel mio percorso ho incontrato - per casualità, a volte - molti assertori, molti “ministri delle proprie certezze”, una pletora di evangelizzatori che erano molto più preoccupati a creare proseliti che a coltivare il dubbio sul proprio operato. 


Ovviamente questi ultimi vengono scambiati per maestri, ma a mio modo di vedere non lo sono, o meglio non hanno la statura di una personalità carismatica vera, sono solo impegnati a creare un “effetto” di se stessi, quasi una rifrazione in grado di ingannare i meno accorti.



L’occasione


Nel 1987 il Teatro Out Off con il quale collaboravo da anni organizzò un simposio su teatro e comunicazione (in occasione del premio David Campbell-Harris), allo Spazio Krizia di Milano, in collaborazione con la sede milanese della JWT - J. Walter Thompson, un’agenzia di pubblicità americana molto in voga in quegli anni. 


In quell’occasione il direttore dell’ Out Off Mino Bertoldo decise di invitare tra gli ospiti e relatori alcuni artisti di varie generazioni fra cui Giovanni Testori, Jan Fabre e il sottoscritto. 

Avremmo dovuto portare un intervento libero sul tema che riguardava il teatro e la comunicazione. 

Se non ricordo male il mio intervento aveva come titolo Teatro e Poesia, ed era incentrato sul tema del suicidio attraverso la figura di Pierre Drieu La Rochelle, un autore che mi affascinava in quel periodo. 


Il mio intervento consisteva in una performance costituita da una lettura di un testo che avevo scritto, e di un video che veniva proiettato alle mie spalle su uno schermo da un lettore VHS dell’epoca. 


Pierre Eugène Drieu La Rochelle (Parigi, 3 gennaio 1893 – Parigi, 15 marzo 1945)

Io non ricordo quasi nulla di ciò che avvenne. Non ho una buona memoria. Ho una propensione quasi sistematica a dimenticare ciò che ho fatto in tanti anni di lavoro. (In parte può essere scambiato per un vezzo, ma in realtà è probabilmente un comportamento inconscio che mi aiuta a non cercare conferme in ciò che faccio, mantenendo un sano distacco a favore del dubbio sul percorso che metto in atto).


In merito a quell’occasione e a quell’intervento ricordo però due fatti che mi colpirono molto: il primo fu che Jan Fabre si dimostrò subito realmente interessato alle proposte teoriche contenute nella mia performance allo Spazio Krizia, tanto da invitarmi a considerare l’ipotesi di mettere in scena uno dei suoi testi per il teatro, non ancora tradotti in Italia. 

Dalle nostre conversazioni in inglese, e dal carteggio che ne seguì, lui riteneva che ero adatto a portare in scena - a trasformare in performance teatrale - quanto lui andava scrivendo in quegli anni e che metteva in scena ad Anversa. 

Di questo ricordo conservo nel mio archivio cartaceo lettere, testi, disegni e scambi di idee e vedute. Purtroppo quel nostro incontro non ebbe mai un esito concreto, ma spesse volte il processo di elaborazione di un progetto è più interessante della sua formalizzazione finale. Almeno questo è il punto di vista che mi è più caro, grazie alla mia formazione concettuale nell’ambito dell’arte prima, e nel teatro di performance poi.


Il secondo ricordo invece è legato a un fatto curioso. Terminato il mio intervento mi ero allontanato dallo Spazio Krizia, dove si svolgeva il programma del simposio, per sbrigare alcune faccende. Quando vi feci ritorno ogni persona che incontravo mi diceva: ma dov’eri finito? c’era Testori che ti voleva conoscere! Il mio intervento lo aveva molto colpito tanto da dichiarare pubblicamente che “dopo aver ascoltato quel giovane (e si riferiva a me) poteva morire tranquillo” (questo mi fu riferito in seguito).


Tutto sommato a me quell’entusiasmo significava molto poco (per mia ignoranza): non conoscevo Testori e tanto meno il suo lavoro. 

E fu proprio Mino Bertoldo a  portarmi  a conoscerlo nello suo studio in Brera. 

Ricordo solo alcuni  locali  colmi di libri.  Montagne di libri.  

Lo stesso Testori ci accolse  seduto dietro un scrivania stracarica di volumi di arte, saggistica, narrativa, al punto che riuscivamo appena a scorgerlo. 


Ma chi era Giovanni Testori?

Non ricordo come fu esattamente, ma da quel giorno iniziammo a frequentarci.  

Io andavo a trovarlo in un residence di Milano in corso di Porta Romana, che era poco distante dal Teatro Carcano, dove lui alloggiava in quel periodo, e ci parlavamo.


         I miei trascorsi, la frequentazione con
Testori e i suoi racconti di vita.


Ero curioso di  conoscerlo. Volevo saperne di  più. Ero anche timido e come mio solito  anche molto distaccato. Ma lui era molto curioso, voleva sapere di me e del mio rapporto con il teatro. Si confidava con me e mi raccontava anche della sua famiglia e dell’educazione ricevuta. 


Un giorno mi raccontò che quando lui era piccolo si era comportato con superiorità nei confronti del figlio del guardiano dello stabilimento di suo padre. Per qualche motivo si era vantato dei regali che aveva ricevuto in famiglia in occasione delle feste natalizie. I due ragazzi erano coetanei e il piccolo Giovanni si era comportato in modo arrogante per il fatto che era il figlio del padrone. Allora suo padre gli impose di regalare parte dei suoi giochi al figlio del custode e come punizione lo mise in ginocchio all’ingresso dei cancelli dello stabilimento all’entrata dei suoi operai, in modo da fare una penitenza. 


Ma le confidenze di Testori avevano principalmente come argomento il teatro. 

Mi raccontava come era stato per lui scrivere per il teatro, la sua frequentazione con Franco Parenti al Salone Pierlombardo, il suo incontro in anni successivi con Franco Branciaroli. Il suo innamoramento per quell’artista del teatro che aveva conosciuto giovanissimo vedendolo a Torino, nella messa in scena del Gesù di Aldo Trionfo, uno spettacolo memorabile e basato sulla sceneggiatura mai realizzata di Carl Theodor Dreyer sulla vita terrena di Gesù di Nazareth. 


Quello spettacolo - che non avevo mai visto, ma di cui avevo solo sentito parlare - mi affascinava da tempo perché fin dagli anni del Liceo avrei voluto trasformare in performance quel libro. 


In confidenza Testori mi raccontò che prima del suo incontro con il giovane Branciaroli aveva provato a interessare Carmelo Bene al suo lavoro di scrittore per la scena. 


Erodiade. La testa del profeta. (Opere di Giovanni Testori, Electa 1987)


In quelle conversazioni Testori sosteneva che il teatro vive anche e soprattutto grazie ai grandi interpreti, ed era quello che lui cercava per i testi che aveva in mente di scrivere negli anni a seguire.


In poco tempo divenni sempre di più coinvolto dalle sue confidenze e dai suoi aneddoti relativi a un passato di teatro che io non conoscevo per nulla. Le scuole non ti raccontano niente. 

Io avevo frequentato la Civica Scuola D’arte Drammatica Piccolo Teatro di Milano, quella fondata da Giorgio Strehler, con sede ancora in corso Magenta. 

Ero nel corso assistenti alla regia, ma dopo due anni mi invitarono ad andarmene, con la scusa che avevo realizzato una performance coinvolgendo i  miei compagni di corso di allora e poi l’avevo replicata anche a Roma negli  spazi underground della capitale in quel periodo. 


Quella performance teatrale, realizzata nei locali interni e esterni del Palazzo Ex-Stelline in Corso Magenta a Milano, dove aveva sede la scuola, aveva fatto capire a tutto il corpo  docente che il mio interesse per il teatro non era proprio allineato ai canoni ortodossi dell’arte teatrale. 

Ed era vero: venivo dal mondo dell’arte visiva e concettuale, dalla performance, e del teatro mi interessava la falsificazione dell’identità affrontata dall’attore per interpretare un personaggio. 


E fu proprio un critico molto importante di quel periodo e degli anni a seguire, Franco Quadri, a mettermi in contatto con l’Out Off di quegli anni, che gestiva una cantina (uno spazio underground come si definivano in quegli anni) in viale Monte Santo a Milano.


E io, tutto questo, a Testori lo raccontavo con dovizia di particolari quando - con  una certa regolarità - lo andavo a prendere con la mia Volvo Polar di colore azzurro e lo accompagnavo a teatro. 


Qualche volta andavamo all’Out Off, che nel frattempo si era trasferito in un capannone adattato a teatro in Via Duprè, sempre a Milano.  Ma andavamo a teatro anche in altre sale della città. 

Ricordo che mi portò a vedere la sua messa in scena del Filippo di Alfieri con Franco Parenti in scena, per sapere cosa ne pensavo. 


Mi parlava del suo modo di intendere il teatro come rito, ritualità della parola che si fa gesto e che si fa carne. Rito del “qui e ora” (hic et nunc)



  “La parola, come?”

    tre incontri al Teatro Out Off nel 1988


Quella con  Testori fu per me una frequentazione intensa e affascinante. 

Mi piaceva ascoltare i suoi racconti e le sue confessioni, quando camminavamo in giro, di sera, per il centro di Milano. Perché lui si confidava con me come se avessimo avuto la stessa età e esperienza. Era sbalorditivo, per me. La sua sincerità mi intimidiva. Ero imbarazzato quando mi raccontava dei suoi anni al Corriere della Sera, dei suoi reportage nelle carceri, del suo rapporto con i carcerati, della figura del Cristo che vedeva  nei carcerati e della profonda consapevolezza che aveva della condizione di chi aveva commesso errori fatali nella propria vita.


Una sera durante una passeggiata fatta a piedi da Porta Romana verso il Duomo mi raccontò la nascita della compagnia teatrale de Gli Incamminati con il giovane Emanuele Banterle. 

E poi mi confidò che stava scrivendo un nuovo testo per il teatro che avrebbe proposto a Franco Branciaroli e che si sarebbe intitolato In exitu. 

Era fortemente impressionato dal modo in cui ci stava lavorando. Mi diceva che si alzava di notte con in testa le parole da mettere sulla carta, quasi in preda a una forma di scrittura automatica, effetto di una sorta di “dettatura”. Mi raccontava che gli veniva fuori un flusso continuo di parole in una lingua composta di italiano, francese, dialetto brianzolo e latino volgare, e che le parole si componevano da sole senza che lui potesse arrestarle mentre la  penna le trascriveva sui fogli. Non credo stesse cercando di impressionarmi anche perché ho un ricordo vivido dell’intensità sincera con cui mi parlava.



E quando io gli confidavo che ero andato a vedere un saggio di giovani allievi attori all’Accademia dei Filodrammatici della sua “Maria Brasca” mi  diceva che quello era il suo primo periodo, quello “verista” della  Milano dei grandi romanzi  come Il fabbricone, La Gilda del Mac Mahon e tanti altri. Sosteneva che quello era un periodo e una scrittura che andava bene in quegli anni. Poi c’era stata una fase evolutiva con la Trilogia degli scarrozzanti e le riscritture dei grandi classici per Franco Parenti di tre opere fondamentali della drammaturgia italiana: Amleto e Macbeth di Shakespeare e l’Edipo di Sofocle. 

E poi c’era stato il periodo nuovo con gli Incamminati  di Interrogatorio a Maria, in tutte le chiese d’Italia, il Factum est e molti altri. 


Mi confidava che la sua scrittura per il teatro si stava trasformando sempre più, ora che metteva in atto un pastiche linguistico, espressione di una visione esplosa e lacerante di una città come Milano - quella degli anni 80 - delle droghe e della perdizione per i più offesi, gli umili, gli scarti della società.


Questo suo modo di parlarmi - gli argomenti che andavamo discutendo quasi fossimo alla pari - presto divennero l’occasione per un invito al teatro Out Off in Via Duprè (a poche centinaia di metri da quel ponte della Ghisolfa, luogo iconico e narrativo del primo Testori). 

L’invito era aperto. Testori aveva carta bianca. Lui allora decise di condurre tre serate nelle quali avrebbe raccontato a noi e al pubblico come era nato il suo amore per il teatro e per la parola. 

Ricordo che lui stesso suggerì il titolo: La parola, come? con quel punto  interrogativo fondamentale. 


Il depliant delle serate lo avevamo composto insieme, con una fotografia che avevo scattato io qualche anno prima in Irlanda: un palo della luce in legno con 2 cavi per la corrente elettrica, immerso nel paesaggio rigorosamente bianco e nero della pellicola Ilford. 

E Testori aveva anche voluto far stampare una cartoncino rettangolare con una bella riproduzione di un quadro di Francis Bacon, pittore che amava moltissimo e di cui aveva scritto più volte. Era un Bacon classico, in cui il corpo del soggetto - per Testori - era necessario a indicare una certa condizione umana, un lacerto umano, che vive nell’incarnazione della parola.


The Crucifixion, Francis Bacon, 1933


Ricordo che in quelle serate di incontri il mio compito di autista si univa a quello di uditore delle sue confidenze, e tutto il tragitto da via Duprè fino al residence in Porta Romana, diventava per me un altro viaggio nel suo mondo, dove lui mi chiedeva come era andata, se aveva parlato bene, come aveva reagito il pubblico, se le cose che aveva detto avevano impressionato e fatto pensare.


Con Testori a teatro


Mosso da sincera curiosità e anche da una certa timidezza una sera lo accompagnai a vedere un mio spettacolo al Teatro Out Off sempre di Via Duprè. Era un testo che avevo scritto qualche anno prima e che avevo messo in scena in una cella frigorifera della città di Milano, in via Donatello (forse l’ultima che produceva e custodiva ancora i blocchi di ghiaccio). Avevo rimesso in scena il testo e volevo sapere che ne pensava Testori. 

Lui venne. Non c’era molto pubblico, forse quindici persone. 

Il titolo era Tartarughe dal becco d’ascia (che anni dopo sarebbe diventato il mio primo film prodotto dall’Out Off con i fondi del Ministero). 

Testori al termine dello spettacolo mi disse: tu finirai a fare Cechov. C’era la luce di Luchino! (Visconti). C’era la sua luce! ma poi c’era Cechov! 


Tartarughe dal becco d'ascia, cella frigorifera in via Donatello a Milano, 1984

Ricordo che non reagii subito alle sue parole. Rimasi silenzioso. Ci pensai più volte nei giorni a seguire. In fondo non ero così contento di quello che mi aveva detto. Dal punto di vista della mia inesperienza e ignoranza non mi entusiasmava ammettere che mi sarei dedicato al teatro “borghese”, quello dei teatri ufficiali. Il paragone con Visconti poi mi aveva intristito. Pensavo di far parte dell’avanguardia, di “disobbedire” in qualche modo al sistema culturale teatrale ufficiale. 


Non ci pensai più, rimanendo in quello stato d’animo di chi non ha capito bene cosa voleva significare quel parere. Parallelamente però volevo capire. Sono sempre stato un po’ caparbio in questo, e allora una sera accompagnai Testori di nuovo al Teatro Out Off. In scena c’era uno spettacolo che io avevo visto e che mi sembrava molto simile al mio, quasi identico per ambientazione, luci, testo. Volevo sentire il suo parere al riguardo. 

Quando finì lo spettacolo, senza che io dicessi nulla lui si girò verso di me e disse a bruciapelo: ma non c’entra niente! Non c’entra niente con quello che fai tu! 

A quelle parole rimasi sconcertato e sinceramente disorientato, ma non osai ribattere, anche perché  non sapevo cosa argomentare. Non avevo capito molto.


Il giardino dei ciliegi di Anton Cechov, regia di Antonio Syxty, Milano Teatro Litta 1999


Molti anni dopo - Testori non c’era più - era il 2000, al Teatro Litta andò in scena Il giardino dei ciliegi di Anton Cechov con la mia regia, e Paolo Cosenza - un attore con cui ho lavorato spesso negli anni e che era nel cast di quello spettacolo che avevo realizzato  al Teatro Out Off che avevo fatto vedere a Testori - mi disse: te l’aveva detto Testori che saresti finito a fare Cechov!

    Testori e le prove di In exitu


Non avevo mai visto Testori fare le  prove di un suo testo teatrale. Lui  mi aveva raccontato molto dei suoi anni al Salone Pier Lombardo, negli anni di Franco Parenti, e di come aveva lavorato ai suoi spettacoli. 

Come al solito ero molto curioso e lui lo capiva, così più di una volta mi invitò a vedere le sue  prove di In exitu con Franco Branciaroli. 

Non ricordo in quale teatro di Milano provava. Ricordo solo che una volta, dopo le prove, mentre lo riaccompagnavo al solito residence,  lui si rivolse a me con una  domanda diretta che non mi aspettavo: cosa dici? Secondo te è giusto che Franco faccia la mia cadenza? Io parlo così perchè sono di Novate Milanese e quindi ho la cadenza. Lui fa la mia stessa cadenza. Tu cosa dici? Io rimasi qualche minuto silenzioso e poi dissi: io credo che sia giusto. In fondo il testo l’hai scritto tu e poi lo hai letto tu ad alta voce per primo e hai pensato che il Gino Riboldi della storia parlasse come te, con la cadenza. E’ giusto, secondo me. Non c’è niente di male se fa la tua cadenza.

A quel punto mi chiese se potevo fare una sosta alla libreria Hoepli in centro, perchè doveva ritirare dei libri. Dopo dieci minuti lo vidi venire verso l’auto e portava due buste della spesa piene di libri. Entrò nell’abitacolo e mi porse una delle due borse e disse: questa è per te e l’altra per me, sempre con la sua caratteristica cadenza dalle vocali allungate, a quel modo della parlata della Brianza.

Altre volte si era comportato nello stesso modo con me, ma era quando mi chiedeva di aspettarlo fuori da una delle tante pasticcerie del centro. Se ne usciva con due torte, una per sé e una per me! Disarmante e anche un po’ comico. Era goloso, lo ammetteva.


Testori e la narrativa (della vita e del teatro)


In quel periodo di frequentazioni assidue, nei tragitti in auto verso qualche teatro o libreria, spesso io ero in compagnia di un mio carissimo amico, Raul Montanari, giovane e aspirante scrittore. Raul frequentava da anni il teatro Out Off, ma soprattutto nei pomeriggi in cui io facevo le prove dei miei spettacoli. 

Essendo uno studioso dei classici antichi, spesso coadiuvava il mio lavoro con gli attori “a tavolino” fornendo le giuste informazioni storiche e linguistiche, soprattutto negli anni in qui lavoravo alla messa in scena dei classici greci e latini. In  alcuni casi era lui stesso il traduttore, come quando misi in scena Edipo re e Edipo a Colono, e il Tieste di Seneca. Traduzioni che negli anni furono poi pubblicate. 


Raul non frequentava il mondo del teatro, ma era un assiduo frequentatore delle mie prove teatrali al teatro Out Off, e per anni ha seguito il  mio lavoro da molto vicino, conoscendomi e cercando di coadiuvarmi non solo con gli attori, ma anche con le scelte musicali per i miei spettacoli. 

Parallelamente a ciò Raul scriveva, perché la sua aspirazione a pubblicare era fortissima. Avendone occasione feci incontrare Raul Montanari e Testori, e nella mia auto spesso ci fermavamo a parlare con Testori di poesia e narrativa, ma anche di cinema (il suo incontro con Luchino Visconti per Rocco e i suoi fratelli e la frequentazione teatrale di Visconti regista de La monaca di Monza e di altri suoi testi). 

Fu così che Raul fece avere alcuni suoi racconti a Testori che li lesse con grande attenzione e una sera, sempre nella mia auto sentenziò: nella tua prosa c’è il cielo del Manzoni! 


Come al solito Testori era stato lapidario nel suo parere e ci lasciò senza parole. Ora Raul Montanari è uno scrittore affermato e molto importante nel nostro panorama letterario, in più di un’occasione abbiamo ricordato quella frase lapidaria "alla Testori".


Il filo pericoloso delle cose, Teatro Out Off, 1988

Testori e il teatro Out Off di via Duprè.


Testori fu spettatore di molti dei miei tentativi di giovane regista di testi che andavo componendo io stesso. Ricordo in particolare quando scelsi un soggetto originale di Michelangelo Antonioni dal titolo Il filo pericoloso delle cose, tratto dalla sua raccolta di racconti e soggetti dal titolo Quel bowling sul Tevere

Con Mino Bertoldo andammo a trovare Antonioni che volle sapere da me che intenzioni avevo sul suo soggetto, per poi accordarmi il permesso, suggerendomi di sviluppare il copione con lo scrittore e poeta Roberto Roversi di Bologna. 

Quando il testo andò in scena - sempre al teatro Out Off - io ci portai Testori a vederlo. Il pubblico era scarso e le attrici dopo lo spettacolo erano piuttosto abbattute. Ricordo che Testori disse a una di loro che aveva apprezzato in lei un’interpretazione così intensa che gli aveva fatto venir voglia di entrare lui in scena a “dare una mano”, e che questa sensazione era la vera pietas che si dovrebbe creare fra interprete e spettatore in una messa in scena riuscita e intensa. Ricordo lo sguardo incredulo dell’attrice a quelle parole, visto che non sapeva chi aveva davanti non riusciva ad afferrarne il senso.


Anche in un’altra occasione ricordo il trasporto di Testori nell’intervenire a sostenere lo sconforto dell’attore dopo le repliche di uno spettacolo. 

Fu il caso di Franco Branciaroli nell’interpretazione di In exitu, che Testori stesso - dopo la famosa “prima teatrale” alla stazione Centrale di Milano con il pubblico sulla scalinata ovest nel 1988 - aveva voluto al Teatro Out Off di via Duprè per un mese di repliche. 


Franco Branciaroli - nei panni lirici e disperati del personaggio di Gino Riboldi - era stato costretto dalla regia a stare fermo, seduto in terra, sul cemento del pavimento del teatro, appoggiato al muro di fondo, quasi a indicare  la condizione del reietto e dello scarto umano, nella figura del personaggio di Gino Riboldi.


Dopo alcune repliche Branciaroli chiese a Emanuele Banterle direttore della compagnia de Gli Incamminati di “avvicinarlo alla scalinata dove sedeva il pubblico in platea”, in modo da creare una vicinanza e una maggior empatia, aiutandolo nel ruolo difficile e intenso del personaggio che ogni sera andava interpretando e che i colleghi famosi che andavano a vederlo apprezzavano ma senza - secondo lui - una vero e proprio entusiasmo di stima nei confronti del suo lavoro, perché c’era troppa distanza fisica fra lui e il pubblico, oltre che l’immobilità del suo personaggio voluta dalla regia.


Ricordo che quel pomeriggio ero presente in teatro e si aspettava l’arrivo di Testori per sottoporgli questa modifica, questa “via di mezzo”. Quando arrivò chiese e ascoltò le ragioni del piccolo compromesso scenico proposto e poi tuonò: no! mai! Franco deve stare là contro quel muro! seduto in terra! Perché questo spettacolo è venuto bene solo qui e nel carcere di Padova!

Nessuno parlò più e si torno allo status quo ante. A distanza di anni mi sono sempre ricordato di quella determinazione senza mediazioni che cercava Testori in ogni aspetto del fare artistico.


Raffaella Boscolo in Erodiade di Giovanni Testori, Teatro Out Off

Testori, la sua malattia, la convalescenza 

        e la mia messa in scena di Erodiade.


Dopo alcuni anni Testori venne ricoverato in ospedale e io gli confidai timidamente che mi sarebbe piaciuto portare in scena Erodiade, il testo della prima edizione pubblicata da Feltrinelli, dove in quarta di copertina si legge un estratto del suo manifesto per un nuovo teatro dal titolo Il ventre del teatro, pubblicato prima su «Paragone. Letteratura», nel numero di giugno 1968, in parallelo con quello di Pier Paolo Pasolini pubblicato su"Nuovi argomenti", nel numero di gennaio-marzo 1968 con il titolo Manifesto per un nuovo teatro. (Un concomitanza che mi sorprende ancora oggi)


Andai a trovarlo e gli parlai della mia intenzione. Lui mi mise una sola condizione: trovare l’interprete giusta per quel ruolo, e mi raccontò di come avvenne il suo incontro con Adriana Innocenti e di come lui aveva riscritto tutta la prima parte del testo che - nelle intenzioni della sua messa in scena - veniva rivolto direttamente al pubblico in platea,  trasformando metaforicamente il pubblico nella testa del Profeta Jokanaan. 

Io dissi che volevo portare in scena la versione originale, quella pubblicata da Feltrinelli. 


E così fu. Individuai in Raffella Boscolo - con la quale lavoravo da anni - l’interprete ideale che a mio parere poteva sostenere quella difficile sfida. 

Testori mi chiese di sentire la voce di quella che sarebbe diventata l’interprete di un’ Erodiade inedita, messa in scena da un giovane regista, dopo la messa in scena che aveva fatto lui. 

Raffaella e io registrammo alcune pagine del monologo e poi mi recai con un mangiacassette dell’epoca a trovare Testori in ospedale. 

Lui si fece sedere dagli infermieri su una sedia accanto al letto e si disse pronto ad ascoltare. A quel punto schiacciai il tasto play. Non dimenticherò mai i suoi occhi cerulei intensissimi e attentissimi che sembravano danzare ascoltando le parole della voce registrata.  Quando il nastro finì Testori mi guardo è disse: è lei! sì, l’hai trovata!


Fu così che Erodiade andò in scena al teatro Out Off di Milano nel 1991. Venne tutta la stampa, la critica e gli addetti ai lavori dell’epoca decretando un reale successo dell’interpretazione di Raffaella nell’incarnare le parole del grande scrittore lombardo.


E quando - finite le repliche - andammo con Raffaella a trovarlo, in convalescenza a Varese, Testori finalmente la vide di persona e le chiese: e adesso che ha fatto Erodiade, cosa farà? E ci raccontò molti aneddoti su Lilla Brignone con l’interpretazione de La monaca di Monza per la regia di Visconti, e di quanto poco pubblico seguisse la tournée dello spettacolo nella provincia italiana. Lo raccontava per far capire alla giovane interprete della sua Erodiade di quanto fosse difficile e impervio il cammino scelto in un teatro di parola che non concede nulla alla “carineria”, come amava dire lui. 

“Carino” era per lui una parola da eliminare nel giudicare uno spettacolo di teatro. In quell’occasione ci raccontò anche della nuova composizione de I Tre Lai (che ultimerà prima di morire).


Allo stesso modo ricordo con grande affetto una telefonata che gli feci dopo quella visita quando gli comunicai che Luca Ronconi avrebbe portato in scena il mio testo L’aquila bambina, che aveva sconvolto e diviso la giuria del Premio Riccione a cui l’avevo mandato nel 1991, ma che aveva trovato in Ronconi uno strenuo difensore tanto da decidere di farne la regia.

Testori mi disse al telefono, con un filo di voce: è intelligente! Vedrai che farà un bel lavoro! Si riferiva a Ronconi, che a sua volta mi aveva confidato che alcuni anni prima avrebbe tanto voluto portare in scena La monca di Monza, ma poi il progetto non si realizzò mai.


Al teatro Filodrammatici di Milano


La notizia della morte di Testori mi fu riferita mentre ero impegnato nelle prove de La commedia degli errori di Shakespeare con la compagnia del Teatro dell’Arca di Forlì. Avevamo fatto tournée con lo spettacolo che era arrivato a Milano e doveva adattarsi al piccolo palcoscenico dei Filodrammatici. 

A quella notizia fui invaso dalla tristezza: nel mio piccolo egoistico mondo avevo perso una persona importante con la quale confidarmi. Avevo perso un maestro. Lo stesso maestro che mi aveva spinto a confrontarmi con il mestiere di regista di teatro, fuori dai confini delle mie sperimentazioni. 

Lo stesso maestro che mi aveva detto più volte che il teatro è una forma di mistero, pensiero di cui io ero fermamente convinto. 

Un mistero che va custodito perché senza mistero tutto diventa manifesto e allora il teatro perde la sua spezia più preziosa - dico sempre io.


Chissà se questo pensiero sul mistero ha ancora valore oggi, nel chiasso generale del mondo e di quanti ancora praticano il teatro?


Antonio Syxty, Milano gennaio 2023



 

Commenti

Post più popolari